14 ottobre

Crotone, 26 anni fa l’alluvione mortale che non ha insegnato nulla: «Memoria indispensabile per la prevenzione»

Il 14 ottobre 1996 la piena dell’Esaro uccise sei persone, furono migliaia gli sfollati e le imprese distrutte. Due anni fa un'altra alluvione travolse la città. L'esperto: «La pianificazione urbana non può prescindere dalla registrazione della memoria» (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Procolo Guida
14 ottobre 2022
09:31
L’alluvione del ’96 (foto Wikipedia)
L’alluvione del ’96 (foto Wikipedia)

Oggi sono esattamente 26 anni d'alluvione di Crotone che provocò un disastro determinato da una piena dell’Esaro con una conseguente vera e propria inondazione di una vasta parte della città: a ridosso dell'area industriale, iniziò a straripare sulla città l’esondazione del fiume che causò la morte di 6 persone, migliaia di sfollati, danni a centinaia di imprese per più di 100 miliardi di vecchie lire.

Il 14 ottobre 1996 la città di Crotone subì una ferita, violenta ed improvvisa: la caduta di consistenti piogge che andarono a sommarsi a quelle che già avevano interessato in modo considerevole la provincia la settimana precedente, aggravante che saturò terreni causando piene e straripamenti di diversi corsi d'acqua presenti nella zona.


14 ottobre 1996

Nella mattinata caddero circa 120 mm di pioggia (nella settimana si erano così raggiunti complessivamente i 330 mm), che andarono così a sovralimentare tutti i corsi d'acqua affluenti dell'Esaro provenienti dalla zona di Cutro.

La piena raggiunse verso le ore 12 il rione "Gabelluccia", nella periferia occidentale di Crotone: una massa di acqua e fango sommerse i primi piani delle abitazioni dello stesso quartiere, estendendosi successivamente verso la zona industriale, interessando sia i fabbricati in riva sinistra, già allagati in precedenza per lo straripamento dell'affluente Papaniciaro, sia quelli in riva destra, presso il rione "Gesù", dopodiché l’acqua raggiunse anche il centro storico cittadino incanalandosi lungo via Mario Nicoletta.

Un pensiero deve andare innanzitutto alle vittime, l'alluvione si portò 6 cittadini, troppo spesso assolutamente dimenticati: Paolo Pupa, Angela Trovato, Luca Buscema, Michela Cicchetto, Luca Tavano e Bruno Comisso. Ma nemmeno i danni ingentissimi hanno insegnato molto: numerosi prefabbricati industriali furono spazzati via dall'acqua e la zona commerciale e industriale della città risultò essere pesantemente devastata. L'acqua, in alcune strade del centro abitato, raggiunse perfino i quattro metri d'altezza. E gli effetti dello straripamento furono poi aggravati dal pesante abusivismo edilizio.

«La memoria strumento indispensabile per la prevenzione»

Furono distrutti quasi tutti i ponti. Venne squarciata una miopia resasi finalmente evidente. Ma per comprendere meglio come due anni fa, sia stato ancora possibile che un’altra alluvione, quella del 2020, abbia "solo" evitato altri morti abbiamo posto alcune domande al geologo Antongiulio Cosentino, insegnante, professionista ed animatore, con la sua associazione Le pietre che narrano, di tantissime iniziative che vanno dalle camminate della conoscenza itinerante all’appropriazione di spazi pubblici che, in collaborazione con enti e tantissimi altri soggetti attivi nel campo della Protezione Civile e dell’attivismo civico, sta sollecitando ed incalzando sia sul tema della prevenzione dei rischi, quanto su quello della conoscenza ed il rispetto del territorio.

Professore quanto è importante la memoria per poter avere l’autorevolezza di pianificare? 
«La pianificazione urbanistica di un territorio non può prescindere dalla “registrazione” della memoria dei luoghi intesa come fenomeno collettivo, come fatto sociale, che vede la partecipazione attiva degli abitanti di quel luogo. Per comprendere al meglio la memoria dell’individuo, la sua strutturazione e conservazione, bisogna ricondurre tutto questo ai cosiddetti “quadri sociali”, ovvero a quelle rappresentazioni del paesaggio senza le quali sarebbe impossibile tanto la fissazione, quanto il riconoscimento dei ricordi personali che ci consentono di percepire quel luogo come familiare. Ciascun individuo è fonte e frutto degli insegnamenti ereditati dal passato: ne custodisce la memoria e sviluppa, a partire da questa, una propria Coscienza Civica. La narrazione delle nostre esperienze (storytelling) risulta pertanto un dovere Collettivo oltre che del singolo soggetto. In questa ottica, la “memoria di una catastrofe”, se Condivisa e partecipata, rappresenta un indispensabile strumento metodologico di educazione e prevenzione anche dal rischio della catastrofe stessa».

Esiste un metodo scientifico per “trattare” la memoria?
«Attraverso la narrazione della memoria percepiamo e interpretiamo il mondo geografico, sociale, culturale e fisico che ci circonda e orientiamo la "capacità" di rispondere alle circostanze di rischio in modo attivo (pro-attivo). Nella formulazione del rischio è indispensabile tener conto di un fattore C (capacità) legato alla comunità di un dato territorio. La riflessione sulla territorialità, in riferimento al tema della prevenzione, consente di evidenziare la necessità sociale di individuare modi e forme per ridare, a chi abita il territorio, la Capacità e la possibilità di governarlo in quanto componente imprescindibile per la propria sicurezza e il proprio benessere. E volendo, c’è una formula per tradurre tutto ciò. Posto che per R = Rischio; per P = Pericolosità; con V = Vulnerabilità; con E = Esposizione; con D = Danno; e con C = Capacità della Comunità (Resilienza), possiamo matematicamente rappresentare che il rischio è il frutto del rapporto tra la moltiplicazione della Pericolosità dell’evento per la vulnerabilità dei luoghi Esposti ammortizzabile solo dalla Capacità di resilienza della comunità colpita: R = (P x V x E) / C tramutabile anche in R = (P x D) / C. Dunque, per rispondere direttamente alla sua domanda: non esiste metodo scientifico senza memoria e conoscenza».

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