L’introspezione del Kintsugi a Lamezia

L’artista Silvia Pujia propone corsi in cui far rivivere l’arte giapponese
di Tiziana Bagnato
18 marzo 2015
10:20

Ciò che è rotto non è perduto. Ha solo cambiato dimensione, aspetto, tridimensionalità. Non è detto che non possa essere riparato e magari diventare ancora più bello, perché vissuto e reso ‘sacro’ dalle sue ferite. E’ questa, in estrema sintesi, la filosofia dell’antica arte kintsugi, nata in Giappone nel quindicesimo secolo e splendida unione di manualità, filosofia, arte e introspezione. A farla vivere in Calabria, a Lamezia Terme, sono  l’associazione Aleph Arte e l’artista Silvia Pujia.


Silvia, figlia d’arte, nata dall’artista Tonino Pujia Veneziano e dalla maestra artigiana Graziella Cantafio, sa come avvicinare chi non ha mai toccato l’argilla o sperimentato il potere creativo delle dita, ad una pratica così intensa e delicata.



Si parte dalla realizzazione di una ciotola in argilla. Ore di lavoro su una scodella sulla cui forma ed estetica si lavora con le mani, ma anche con merletti e altre forme di decorazione. Non esiste ciotola uguale ad un’altra. Già dal primo step si intravede quanto di sé si possa riversare in un manufatto. Dall’estro, alla pazienza, piuttosto che all’ansia, la tensione, la calma.


Il tempo che la ciotola vada in forno e si cuocia e poi si passa alla rottura. Un gesto non facile quello di lasciarla cadere dalle proprie mani e di vederla andare in frantumi. Perché non è facile accogliere nella propria vita delle ferite, così come non è facile richiuderle. Ma nemmeno impossibile. Tramite una particolare lacca, mescolata ad acqua e farina, si passa allora  a ricongiungere uno ad uno i singoli frammenti, per poi decorare le fratture con polvere d’oro.


L’oro, le fratture, la sua storia, renderanno l’oggetto molto più bello ed interessante rispetto a quello iniziale, che improvvisamente sembrerà anonimo senza cicatrici. Un oggetto frutto di un percorso, come spesso accade nella vita, quando un imprevisto spazza via le nostre certezze lasciandoci attoniti, feriti, inerti. Poi la quotidianità prende il sopravvento, la vita tende una mano, i cocci pian piano iniziano a ricomporsi e, stavolta, i legami sono più forti, polimeri di consapevolezza e ritrovata forza.


Un percorso introspettivo quello dell’arte kintsugi, che passa dall’argilla all’animo senza soluzione di continuità e da cui si esce forti di una nuova certezza: il dolore non va estirpato o occultato, va vissuto e riabilitato.

Giornalista
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