Il rosario sotto al cuscino

Per riuscire a scalfire il “sistema ‘ndrangheta” la decisione di collaborare con la giustizia ha una doppia valenza dal valore biblico: pentimento uguale salvezza. Chi vuole ancora marcare galera a vita?
di Angelo De Luca
27 giugno 2016
12:36
foto Raffaele Montepaone
foto Raffaele Montepaone

Andrea Mantella e Gennaro Pulice. Senza dimenticare Raffaele Moscato. Uno spaccato di ‘ndrangheta degli ultimi 10 anni dal colore rosso sangue e dal sapore di gioco d’azzardo, di droga, estorsioni e potere criminale efferato. Di pane e galera. Anzi, di pane e 41bis. Che adesso inizia forse a dare i suoi frutti. Perché se storicamente la ‘ndrangheta conta pochissimi pentiti, per via appunto di quegli indissolubili legami familistici, negli ultimi anni si assiste invece ad un inversione di tendenza, che comunque parte da lontano. L’idea secondo la quale “delinquere dovrà risultare sconveniente” trova finalmente una sua dimensione nel presente. Dopo anni passati ad ammanettare pesci grossi e pesci piccoli, ad estendere i reati di associazione mafiosa interna ad esterna ad una svariata categoria di sodali alle consorterie mafiose, sta promuovendo una nuova stagione di pentitismo. Lo Stato finalmente ha deciso di alzare il tiro, anche se non è così inimmaginabile la firma di un compromesso con alcuni soggetti della criminalità organizzata secondo il principio “do ut des”, ovvero della possibilità di contrattare la pena in cambio di confessioni. Una cosa non nuova, successa già in Sicilia con “Cosa Nostra”.

 


Che i diretti interessati siano davvero pentiti del male fatto nella loro vita può anche essere un aspetto interessante. Il pentimento, infatti, è un aspetto fondante della natura umana. Ma ciò che pesa davvero, specie se hai 30 anni e una vita possibilmente diversa davanti, è il terrore di finire all’ergastolo in regime di 41bis. Una misura drastica, pesantissima e – perché no? – al limite della tortura per un paese considerato civile. Quindi è chiaro che il mafioso inizi ad essere seriamente preoccupato del suo futuro.

 

Purtroppo, però, per riuscire a scalfire il “sistema ‘ndrangheta” la decisione di collaborare con la giustizia ha una doppia valenza dal valore biblico: pentimento uguale salvezza. Ed è, seppur in una logica culturale definibile come un’infamia, l’unico modo per capire con quasi certezza quali logiche regolino i rapporti tra le varie ‘ndrine. E soprattutto si potrebbe capire quali siano questi scacchieri da distruggere. Un po’ perché la teoria della legge uguale per tutti - essendo appunto uguale per tutti - è uguale pure per i mafiosi, con il risultato che si possono smontare per innumerevoli cavilli gli impianti accusatori dei Pubblici ministeri, e un po’ perché quella tipica aurea di onnipotenza e arroganza del malandrino medio calabrese può essere finalmente ridicolizzato e ascriverlo ad un fenomeno folkloristico, quasi pagliaccesco. Non per dire che la ‘ndrangheta sia una baracconata, sia chiaro, ma solo per ribadire un concetto altrimenti vissuto come valore fondante e reale della propria esistenza. Demolire il mito, ecco. E il pentito, che a queste latitudini è la massima espressione di disonore, può avere questa funzione in cambio di una pseudo-libertà.

 

Il caso Mantella ha un qualcosa di eroico. Un uomo di una caratura criminale senza precedenti nel vibonese, che è riuscito in pochi anni a ristabilire le regole del suo territorio, sbeffeggiando i potenti Mancuso in diverse occasioni e mettendo alle corde lo storico capo-bastone (oggi defunto) “Piccinni” Carmelo Lo Bianco. Un uomo senza pietà alcuna, quasi come un piccolo Scarface, che anche dal carcere riusciva a gestire la sua squadra di sprovveduti giovani terroristi del crimine. Adesso si pente. I familiari da subito lo sconfessano e lo abbandonano. Segno che la cultura di mafia è ancora forte nei territori. Ma marcare galera a vita è più forte di qualunque legame. Segno altrettanto forte di una stessa cultura che può essere lentamente destrutturata tramite la legge non scritta del contrappasso: l’infamia. Perché nonostante gli ‘ndranghesti odiano questa parola, l’unico vero dogma nel quale tutti i mafiosi si riconoscono senza dirselo mai è proprio l’infamia. O in alternativa come si dovrebbero chiamare le estorsioni ai danni della povera gente, le cattiverie e i soprusi utilizzati come metodo di vita, la fanaticherie alla luce del sole con i soldi derivati da proventi illeciti e l’ostentazione delle loro ignoranze? Infamie, no?

 

 Ed è bene che si pentano tutti.

Giornalista
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