Il ventre molle dell'Aspromonte

Se vuoi sapere cosa sia la Calabria di certo l’Aspromonte racconta nei suoi silenzi i paradossi di una regione talmente ricca da essere infine povera. Ma l'Aspromonte non è mai morto. Vive meglio e più di prima.
di Angelo De Luca
14 giugno 2016
11:28

Corrado Alvaro c’ha ragione: “Il calabrese vuole parlato”. Ad un certo punto, dopo una chilometrica salita tra sterrato e cemento, sul cammino appare un cancello chiuso nel nulla. Una frontiera, non impenetrabile, ma di certo un simbolo. Un borgo chiuso, abbandonato da almeno 50 anni. Parcheggiata l’auto si cerca di capire. C’è un signore sulla sessantina che sbuca fuori: “Buongiorno”, diciamo. “Buongiorno a voi”, risponde. “E’ possibile passare e scendere qualche altro metro più giù? Vorremmo andare ad Africo Vecchio”. “Certo, che problema c’è? Basta che poi richiudete il cancello”. Ecco, aver chiesto gentilmente quel piacere, che comunque era un diritto, essendo all’interno del Parco Nazionale d’Aspromonte, non avrebbe avuto lo stesso effetto. E il calabrese, appunto, vuole parlato. Perché certi luoghi sono di chi secolarmente li abita. E in Aspromonte non vedi mai nessuno fintanto non ne hai bisogno. Che sia una finta e simbolica frontiera o una richiesta di informazioni. C’è qualcosa, qualcuno che ti guarda sempre.

 


La metafora di alcuni luoghi sacri, entrati diversamente nell’immaginario collettivo come zone di latitanze e sequestri, non sono nient’altro che favole raccontate a torto e a ragione. Perché tra quelle montagne verdi c’è stata (e magari c’è ancora) sia l’una che l’altra poetica. Ovvero, rimane forte il mito della ‘ndrangheta coppola e lupara e rimane forte pure il mito della veracità autentica della Calabria. Cioè, se vuoi sapere cosa sia la Calabria di certo l’Aspromonte racconta nei suoi silenzi i paradossi di una regione talmente ricca da essere infine povera.

 

Quando per esempio negli anni ’50 alluvioni e frane distrussero definitivamente alcuni paesi aspromontani l’idea, ipotizzata già trentanni prima da Umberto Zanotti Bianco, del passaggio dalla ruralità alla modernità non è stato poi così conveniente per i superstiti delle calamità naturali. “Ricordo una notte passata sull'Aspromonte - scrisse Zanotti Bianco - una notte estiva dai pochi grandi astri lucenti, dai possenti venti meridionali profumati dal sonno divino delle campagne lontane. Ricoverati in una baracca rattristata dal lamento monotono d'un bimbo malato che si confondeva col cigolio delle assi sconnesse, ascoltavamo, avvolti quasi nelle tenebre, storie di miserie e d'abbandoni che, come reiterati lamenti, uomini e donne ci narravano a capo chino, con voce lenta e fioca, appena tremante di lacrime quasi che il pianto venisse di lontano! (...) Fu allora che ci promettemmo di seguirle, povere anime, nelle tenebre e nel dolore”. Quell’idea di disperazione totale e lontananza dalla civiltà captata dal noto filantropo, racconta certamente i paradossi - viventi e presenti anche oggi - dell’Aspromonte. Da un lato la bellezza totale di un luogo altamente rappresentativo per cultura e identità, dall’altro il dramma di vivere senza la riconoscenza concreta di uno Stato menefreghista. Ciò che mai si è fatto in Aspromonte non è tanto il lavoro pubblico sui collegamenti col mondo, ma l’incapacità dolosa di non voler tutelare comunità autoctone millenarie. Molto più facile, insomma, prendere di peso la gente e portarla in quelle che oggi verrebbero definite “new-town”. Molto più facile, con un’aggravante: lo Stato ha atteso una catastrofe per accorgersi della gente d’Aspromonte.

 

Ai posteri, cioè a quei pochi che ancora oggi scambiano l’origano in fiore come fatto identitario e viscerale, non resta che andare di tanto in tanto in pellegrinaggio ad Africo Vecchio, così come a Casalinuovo, passando per Roghudi e Pentedattilo. I paesi sono abbandonati. Abbandonati, ma nient’affatto tristi. Ci sono i cimiteri intatti, i loculi coi nomi recenti, le croci del cristianesimo, le pietre lucide, le vacche e le capre felici. In una casa di Roghudi, sul tavolo persino un mazzo di carte napoletane, con l’asso di bastoni in bella vista con a fianco una busta di peperoncino. Ecco un altro simbolo. Perché in quella abitazione senza porte e finestre qualcuno c’è stato. L’Aspromonte non è mai morto. Vive meglio e più di prima. Perché gli invasori, qui, siete voi.

Giornalista
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