Disperazione e rabbia a Riace: «Se non c'è Mimmo andiamo via anche noi»

Botteghe chiuse, sconcerto e incredulità tra i rifugiati e i riacesi dopo la decisione del Riesame di disporre il divieto di dimora al sindaco Lucano

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di Redazione
17 ottobre 2018
13:15

Riace al primo impatto sembra un paese fantasma il giorno dopo la decisione del Tribunale del riesame che ha revocato i domiciliari al sindaco Domenico Lucano imponendogli però il divieto di dimora. Tra i rifugiati, ma anche tra tanti riacesi, i sentimenti dominanti sono lo sconcerto, l'incredulità ma anche la rabbia. Per molti la vicenda giudiziaria di "papà Mimmo", come viene chiamato qua Lucano, è destinata a segnare in negativo il futuro dell'esperienza Riace. Un sentimento provato non solo dai migranti, che vedono a rischio la loro permanenza, ma anche dagli stessi riacesi, molti dei quali sono impiegati nelle botteghe artigiane aperte per favorire l'integrazione. Botteghe che sono chiuse dall'agosto scorso per il mancato invio dei fondi ministeriali, il cui inizio risale a due anni fa. Oggi alcune botteghe sono aperte, ma solo per far vedere ai giornalisti cosa vuol dire l'integrazione a Riace. Botteghe in cui lavorano fianco a fianco riacesi, tanti dei rifugiati che sono passati da qua e quelli che vi si sono stabiliti.


«Adesso andremo via anche noi. Se non c'è lui come restiamo?». Daniel, migrante del Ghana, non si dà pace. «Che senso ha liberarlo ma poi non farlo stare qua - dice - È una decisione - aggiunge - che hanno preso loro, il modello Riace non gli piace e per attaccarlo attaccano lui. I migranti non vogliono andarsene e allora hanno fatto questo, l'ha detto anche il ministro dell'Interno, il modello Riace è finito. Se non c'è Mimmo, secondo me, se ne vanno via tutti».
Non riesce a trattenere le lacrime e scoppia in un pianto dirotto Irene, la ragazza di Riace che da dieci anni gestisce una vetreria insieme ad alcuni rifugiati di varie nazionalità, parlando del sindaco Domenico Lucano. «Da agosto tutti i laboratori sono chiusi - spiega - per la mancanza dei fondi. Adesso non sappiamo che cosa succederà. Il lavoro era tutta la mia vita. E ora con questa situazione non so cosa potrà succedere». Sulla vicenda giudiziaria Irene commenta: «Non è possibile, una persona innocente trattata così». Accanto a lei c'è Rauda, una ragazza somala che lavorava nel laboratorio. «Mi piaceva stare qui - dice anche lei con gli occhi gonfi di lacrime - e sono molto triste, a questo punto non so se me ne andrò».


 

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