Stragi di mafia, il killer scoppia in lacrime: «Ammazzano la mia famiglia»

Giuseppe Calabrò, autore dell’omicidio Fava-Garofalo, terrorizzato davanti ai pm: prima mente, poi piange a dirotto: «Mi uccidono, devo andare via». E racconta una verità taciuta per 23 anni
di Consolato Minniti
3 ottobre 2017
09:48

«Ammazzano mia figlia, ammazzano la mia famiglia». Ventisette minuti e sei secondi. Questo è il tempo che serve a Giuseppe Calabrò per crollare davanti ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, che lo stanno interrogando sulle stragi di mafia ed in particolare sull’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, di cui Calabrò è autore materiale assieme al pentito Consolato Villani.

 


Resiste, Calabrò. Riesce financo a mentire, cosciente che quella sua bugia, forse, gli avrebbe consentito di non avere problemi nella sua vita da detenuto. Ma Federico Cafiero de Raho, Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, magistrati di grande esperienza, colgono subito le enormi falle nel racconto dell’uomo. E da quel pianto dirotto, da quel volto terrorizzato, si aprono squarci devastanti che narrano un pezzo di storia d’Italia che, altrimenti, sarebbe rimasto nei meandri più nascosti della memoria di un killer.

 

È il 25 maggio 2014 e, al carcere di Tempio Pausania, giudici e poliziotti stanno davanti ad un uomo dalla carriera criminale frettolosa, sgangherata, ma tremendamente importante. Perché Giuseppe Calabrò finisce presto la sua escalation all’interno della ‘ndrangheta. Viene scoperta la sua responsabilità e lui va in cella. Non ha il tempo di far germogliare quel seme criminale che hanno piantato nella sua gioventù di ragazzo di periferia reggina, dove l’aria di ‘ndrangheta si respira a pieni polmoni e le connivenze, spesso, diventano un vivere quotidiano.

 

La menzogna cosciente

Commette un primo grossolano errore, Giuseppe Calabrò. Ben prima che i magistrati possano porgli delle domande, lui mette le mani avanti: «Io questa accusa su mio zio… mio zio non lo posso accusare… ma non esiste». Suo zio è Rocco Filippone, fratello di sua madre, oggi in carcere con l’accusa di essere il mandante del duplice omicidio Fava-Garofalo. Calabrò afferma di aver appreso dai giornali dello zio. Ma i magistrati non gli hanno posto alcun quesito su di lui. È già un primo indizio del nervosismo che cova nell’animo del killer. Afferma di conoscerlo poco, quello zio. Quasi non sa in che zona di Rosarno abiti e se abbia un secondo nome. «In questi venti anni – si giustifica – ho perso i contatti». I magistrati allora gli mostrano la lettera da lui stesso vergata ed indirizzata all’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, in cui si fa riferimento alla strategia stragista dietro quel duplice omicidio. Ma Calabrò, davanti ai pm, nega tutto: «Tutta una fantasia… mia…». Il procuratore aggiunto Lombardo, allora, lo incalza: «E quindi un detenuto come lei che vive anche una situazione carceraria difficile si decide di prendere in giro il procuratore nazionale antimafia scrivendo quelle fantasie… questo dovremmo credere noi…». Calabrò finge di non comprendere, afferma che all’epoca era confuso. Fino a quando il procuratore Curcio lo inchioda: «Ho interrogato Voglino (compagno di cella di Calabrò, ndr)». Ne viene fuori un ritratto di tutto ciò che i due detenuti facevano insieme, Calabrò è con le spalle al muro: «Lei vuole continuare a nascondersi dietro a un dito», aggiunge Curcio. Il killer tenta allora un ultimo disperato tentativo di difendere la sua consapevole menzogna: «Non mi credete che quella è la verità?». Curcio non ci sta: «Ma le pare possibile che sono passati 17 anni…». Interviene anche il pm Lombardo: «E quindi a Reggio Calabria lei dice…». Il magistrato s’interrompe.

Il pianto liberatorio e il terrore

Calabrò, riporta il verbale depositato agli atti dell’inchiesta “‘Ndrangheta stragista”, scoppia a piangere: «Ammazzano a mia figlia… ammazzano la mia famiglia». Tutta l’umanità del sicario dei carabinieri viene fuori in quei secondi convulsi. Singhiozza, non si dà pace. I passaggi dell’interrogatorio raccontano un dramma interiore assai evidente.

Cafiero: che è successo? Calabrò stia tranquillo, si segga un momento Calabrò

Calabrò: ammazzano mio figlio

Cafiero: Calabrò stia seduto un momento e stia tranquillo

Curcio: Calabrò se lei… lei e i suoi figli saranno protetti… se ci dà la possibilità di proteggerla si metta a sedere qua

Cafiero: Calabrò saranno protetti tutti… venga qua… si segga… vuole un po’ d’acqua? Stia tranquillo eh? Innanzitutto nessuno lo sa quello che sta succedendo qui… ha capito?

Calabrò: Mi ammazzano… ora da qui io devo andare via… due ore… da qui due ore me ne devo andare… vi dico la verità… due ore… da qui non ci sto più…

Curcio: Non ho capito… venga… due ore allora?

Calabrò: Due ore devo andare via…

Lombardo: Che ci dice la verità ma entro due ore deve andare via?

Calabrò: Io da qui devo andare via… è una cosa incredibile… ma stiamo scherzando? Mi avete messo in mezzo ai mafiosi… ci sono 2000 mafiosi…

Calabrò è in preda al panico. Dal verbale si evince come lo stesso si alzi ripetutamente dalla sedia. Poi la richiesta: «Voglio garanzie… mi garantite… io non voglio uscire… faccio la galera… voglio garanzie». Poi chiede un caffè, ma il suo nervosismo non consiglia una simile soluzione. Arriva una bibita. Il killer si ricompone, pian piano si riprende e con onestà ammette: «Pensavo che finiva così… lo sapevo che finiva così… non potevo reggere la pressione». Il pm Curcio lo consola: «E la verità esce sempre fuori…».

 

Quella verità taciuta 23 anni

«Allora come stanno le cose?», chiede Curcio. Calabrò appare frastornato: «Ah?». «Come stanno le cose?» ribatte il giudice. E giù con il racconto.

Calabrò: Ah siamo nel ’93… siamo a novembre del ’93… una Fiat Uno… M12 sulle spalle… M12 sulle gambe… mi avvicino verso Rosarno… io avevo già ucciso il vigile… mio cugino era a già a conoscenza…. Antonio Filippone.

Curcio: Il figlio di Rocco sarebbe?

Calabrò: Avevo una grande stima di lui e andavo sempre tutti i giorni… dopo l’omicidio del vigile andavo sempre armato, ero spietato, non guardavo niente, incosciente proprio… mio cugino verso… tutti i giorni io uscivo e me ne andavo… andavo a Melicucco… uno giorno a Rosarno, c’avevo la campagna a Rosarno. Mi avvicino con la mia Fiat Uno e vedo tante persone, c’era un summit, non so chi siano queste persone. Mi ha chiamato mio cugino Antonio in disparte… mi dice “c’è un lavoro per te”… mi fa… “che devo fare?”. “Bisogna sparare delle forze dell’ordine”. Già avevano saputo della… aveva già saputo del vigile e aveva una grande stima di me… però a distanza di 15-20 metri c’erano tante persone, un gruppo di persone non so… c’erano anche dei siciliani non so come si chiamano queste persone».

Lombardo: Perché dice così?

Calabrò: Erano della Sicilia… si sentiva l’accento siciliano, mi ero avvicinato io a loro… mi stavo avvicinando dice “non puoi avvicinarti”… mio cugino

Curcio: E c’era anche il padre di Antonio?

Calabrò: Io a lui non lo vidi, mio zio, c’era mio cugino Tonino, ma non le so dire se mio zio c’era o no. Però se c’era mio cugino ero certo, sicuro che ci fosse anche lui. Era l’una… mi dice: “Te la senti di sparare dei carabinieri?”. E quello è stato fatto. Tutto il resto… è stato questo l’omicidio dei carabinieri… mandante ed esecutore di questa uccisione non so chi sia dottore… tutto qui.

Curcio: Scusi non ho capito

Cafiero: Sì, ma come le dissero però? Perché doveva ammazzare i carabinieri?

Calabrò: Non lo so… il motivo, dottore… no… il motivo non lo so

Cafiero: E però lei lo scrive poi nella lettera… e poi lo dice nel colloqui investigativo… perché ora dice che non lo sa?

Calabrò: Cioè nel senso che il motivo … è la ‘ndrangheta… tra Stato e mafia

Curcio: Le dicono ad un certo punto che si doveva fermare?

Calabrò: Dopo il terzo episodio, sì!

Curcio: E chi glielo dice di fermarsi?

Calabrò: Mio cugino… “basta! Fermati!” Come hai fatto è già troppo così…

L’interrogatorio prosegue con diversi nomi forniti da Calabrò. Poi ad un certo punto ecco tornare l’argomento summit.

 

Il summit ‘ndrangheta-cosa nostra

È Cafiero de Raho a riportare Calabrò sui binari di quella riunione. Il killer spiega che quell’incontro si tenne nel novembre del 1993 a Melicucco, nella cascina di suo cugino: «Il giorno che mi diede… mi disse di fare questo fatto qua, c’erano tante persone… in una campagna era… diciamo». Sentì parlare con accento siciliano, ma non riuscì a riconoscere nessuno perché era buio. Calabrò ricorda come suo cugino non lo fece avvicinare. Lui scese armato dalla macchina, con il suo inseparabile M12: «Sì sì io sempre armato camminavo e mi dice bisogna fare (incomp.) “bisogna sparare dei poliziotti… carabinieri… quello che sia… te la senti?”… “Se lo dici tu, va bene… e il motivo?”… “Il motivi poi te lo dirò dopo il motivo”. “Te lo senti a farlo?”… “E quando lo devo fare”… “A giorni”… vado da lui prima e poi nei giorni successivi… qualche giorno prima mi ha dato… prima del due dicembre… fine di novembre mi ha dato il via».

 

Faccia di mostro andò a Reggio?

Fra i nomi citati da Calabrò, ce n’è uno che cattura l’attenzione degli inquirenti: Domenico Logiudice. Questi, stando al killer, era a conoscenza dell’attentato ai carabinieri. Non si tratta di un appartenente al gruppo di Santa Caterina, ma della zona di Reggio Campi, quella dell’Eremo. Dopo averne delineato la figura, ricordando che fu lui ad insegnargli a sparare, il pm Lombardo chiede se avesse mai visto in compagnia di persone strane. «Parecchie persone», sbotta Calabrò, che poi fa subito riferimento ad un uomo con un fuoristrada, un 4x4 verde blu, che lui aveva visto a casa di Logiudice.

Lombardo: E perché l’ha colpita… un fuoristrada… è pieno di fuoristrada

Calabrò: No, no lei mi ha detto… se mi fa la domanda

Curcio: E com’era il tipo che guidava questo fuoristrada? Aveva qualche caratteristica particolare?

Calabrò: C’ha una faccia… è un po’ “smendato” in faccia

Viene chiarito il senso del termine dialettale: mancava una parte di viso, vi era una cicatrice profonda. L’uomo appariva sui 45-55 anni. Dalle fotografie, la numero 23 coglie nel segno: «L’ho visto da Logiudice», spiega Calabrò aggiungendo che aveva una cicatrice in faccia: «Mi ha colpito questa persona… brutto in faccia… c’aveva una macchina… c’aveva una… non ricordo queste macchine come si chiamano… un fuoristrada». La foto 23 ritrae Giovanni Aiello, l’ex agente di polizia, indicato come “faccia di mostro”, ritenuto da diversi pentiti un killer di stato, di recente deceduto. Un riconoscimento di cui Calabrò non coglie pienamente la portata, ma che serve ai magistrati per inserire un altro pezzo nel loro puzzle di ricostruzione di quel periodo. La visita di Aiello a Logiudice, infatti, s’inserisce prima rispetto all’azione contro i carabinieri. Ma non finisce qui.

1. continua

Consolato Minniti

Giornalista
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