Belen come Bocca di rosa e la Calabria come il paesino di San Vicario

Il commento del giornalista Ernico De Girolamo sulla polemica per l’assegnazione dei fondi regionali per la cultura al Festival del peperoncino di Diamante che la vedrà tra i protagonisti
di Redazione
24 agosto 2017
14:55
Belen
Belen

Povera Belen. Nell’ultima settimana la Calabria è diventata la sua nemesi, il suo castigo. La polemica sull’assegnazione dei fondi regionali per la cultura, con una cospicua fetta destinata a finanziare indirettamente la sua partecipazione al Festival del peperoncino di Diamante, ne ha fatto il perfetto catalizzatore di tutte di tutte le frustrazioni e di tutti gli anatemi di un popolo, quello calabrese, che non si risparmia mai quando deve puntare il dito contro il nemico forestiero. Sessantamila euro, anzi no, 36mila euro iva inclusa per ospitare Belen, per quella lì, che schifo signora mia, dove siamo arrivati signora mia. Povera Belen, lei che c’entra? Volevo vedere voi. - “Pronto, c’è Belen?” - “Sì, sono io” - “Vuoi venire al Festival del Peperoncino? Ti diamo 36mila euro iva inclusa”. - “Si grazie, vengo di sicuro”. Semplice, lineare, logico. Voi che avreste fatto? Dice sì, ma che c’entra Belen con la cultura.

 


E che vuol dire? C’entra poco anche il peperoncino, che a dirla tutta resta peperoncino. A meno che non ci costruisci sopra un evento come quello di Diamante che possa declinare in tutte le forme i concetti di piccante, di seducente, di rosso fuoco. Nel cinema, nella letteratura, nell’arte e, dunque, anche nel cazzeggio social postmoderno, di cui Belen è senza dubbio un esponente di spicco. Avessero invitato Gianluca Vacchi sarebbe andato bene lo stesso, salvo che in molti si sarebbero chiesti “e cu cazz’è Vacchi?”. Troppo rischioso, meglio puntare sul sicuro, meglio scegliere Belen, una garanzia di curiosità gossippara che spacca. E poi Belen è bella, bellissima. Lo dice anche il nome, che se fosse stata brutta si chiamava come minimo Bruten. Che attiri l’attenzione morbosa dell’italica stirpe, da Aosta a Lampedusa, è un dato di fatto incontrovertibile. A prescindere con quale intento la si guardi, interessa a grandi e piccini, donne e omini. Abbiamo già pagato di tasca nostra per vedere Belen e non ce ne siamo mai lamentati. Dopo che fece la sua sfavillante comparsa sulla scala del Festival di Sanremo del 2012, foraggiato con i proventi del canone Rai e dunque con le nostre tasse, siamo rimasti per settimane, mesi, anni a fantasticare sulla sua farfallina tatuata e a chiederci se quella sera indossasse le mutande.

 

Dopo quella apparizione furono allestiti anche altari pagani dedicati a Lei, nel tentativo di stemperare nel misticismo l’insopportabile tensione erotica che attanagliava lo Stivale. Questa volta, invece, è stato un diluvio di insulti, di epiteti irripetibili. I calabresi, ma soprattutto le calabresi, hanno scatenato l’inferno. Le hanno detto di tutto. Le hanno detto di più. Una specie di Bocca di rosa all’ennesima potenza, dove le comari di San Vicario si sono accorte subito che non si trattava di un missionario. Insomma, povera Belen. Se le cose non funzionano nell’assegnazione dei fondi pubblici non è colpa sua, lei l’amore lo fa per passione, mentre da queste parti c’è chi ci frega per professione.

 

Enrico De Girolamo

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