Sulla spiaggia di Cutro la “Profezia” di Pasolini, una poesia in croce per un cimitero senza croci

Quanti ne abbiamo visti in questi ultimi anni, mesi e giorni, in tutti i telegiornali, di Alì dagli occhi azzurri ammassarsi sui barconi della morte sfidare le acque del Mediterraneo, saltare dalla Turchia alle isole greche, dalla Libia a Lampedusa, a Crotone, a Roccella Jonica, a Steccato di Cutro, oppure infrangere le barriere che alcuni vogliono erigere, altri hanno eretto, davanti alla loro disperazione?

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di Damiano Montesanto
8 marzo 2023
19:21

In una mia intervista ad oggi inedita di oltre mezzo secolo fa a Pier Paolo Pasolini (era l’8 maggio del 1971), alla mia domanda “Propone nei suoi romanzi una weltanschauung sottoproletaria oppure vede nel sottoproletariato una possibilità di inserimento nella società borghese”, il Poeta così rispondeva:

“Allora sì, la mia era una weltanschauung la quale poneva il sottoproletariato un po’ come un’immagine mitica dell’uomo, con tutti i suoi difetti, le sue mancanze, le sue lacune storiche, soprattutto con tutto il suo ritardo storico. Tuttavia, si poneva miticamente come un eroe positivo, l’eroe sottoproletario, cosa che allora ha scandalizzato sia i borghesi che i comunisti. Allora però io pensavo anche a una specie di palingenesi umana a cui il sottoproletariato, in quanto terzo mondo avrebbe partecipato.


Vedi per esempio – continuava Pasolini – quella mia poesia intitolata “Profezia”, che parla del sottoproletariato del terzo mondo che viene su, si unisce al sottoproletariato calabrese e romano, e distrugge Roma e l’Occidente. C’era, dunque, questa specie di configurazione mitologica del sottoproletariato e varie volte, più forse nella mia poesia che nei miei romanzi, parlo del sottoproletariato come di un esercito miserabile accampato intorno alla città e vuole conquistarla.

Ma adesso – spiegava in quell’intervista – qualcosa è radicalmente mutato: mentre allora pensavo che in fondo era giusto che il sottoproletariato volesse il potere sulla città e sarebbe stato in grado di trasformare questo potere, renderlo democratico, giusto e ideale, adesso questo non è più possibile perché la città che il sottoproletariato conquisterebbe, nel caso la conquistasse, è una città completamente deformata, inautentica e non più comunque umanistica, cioè una città come mi pareva quindici anni fa, venti anni fa: è la città della civiltà tecnologica, della cultura di massa, della totale corruzione. Il potere, quindi, di cui il sottoproletariato si approprierebbe, in ogni eventualità, sarebbe un potere che corromperebbe il sottoproletariato stesso”.

Cosa dice di tanto profetico quella poesia del 1964 poi inserita in una raccolta di scritti vari a cui Pasolini dà il titolo “Alì dagli occhi azzurri”?  

Era nel mondo un figlio
e un giorno andò in Calabria:
era estate, ed erano vuote le casupole,
nuove, a pandizucchero,
da fiabe di fate color  
della fame. Vuote.

Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi
senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.

Le spighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dello Jonio

Scuoteva paglia nera
come nei sogni profetici:
e la luna color della fame
coltivava terreni
che mai l’estate amò.

Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò.

Il figlio aveva degli occhi
di paglia bruciata, occhi
senza paura, e vide tutto
ciò che era male: nulla
sapeva dell’agricoltura,
delle riforme, della lotta sindacale, degli Enti Benefattori,
lui- ma aveva quegli occhi.

Ogni oscuro contadino
aveva abbandonato  
quelle sue casupole nuove
come porcili senza porci,
su radure color della fame,
sotto montagnole rotonde
in vista dello Jonio profetico.

Tre millenni passarono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica
l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto tempo ancora, operaio di Milano,
lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?

Quasi come un padrone.
Ti porterebbero su
dalla loro antica regione,
frutti e animali, i loro
feticci oscuri, a deporli
con l’orgoglio del rito
nelle tue stanzette novecento,
tra frigorifero e televisione,
attratti dalla tua divinità,

Tu, delle Commissioni Interne,
tu della CGIL, Divinità alleata,
nel sicuro sole del Nord.

Nella loro Terra di razze
diverse, la luna coltiva
una campagna che tu
gli hai procurata inutilmente.

Nella loro terra di Bestie
Famigliari, la luna
è maestra d’anime che tu  
hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere
è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa
e tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa. Se egli poi non sorride
è perché la speranza per lui
non fu luce ma razionalità.

E la luce del sentimento
dell’Africa, che d’improvviso
spazza le Calabrie, sia un segno
senza significato, valevole
per i tempi futuri! Ecco :
tu smetterai di lottare
per il salario e armerai
la mano dei Calabresi.

Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,
il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.

Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane.

Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini 
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e il formaggio!”
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.

Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica    
voleranno davanti alle willaye.

Essi sempre umili
Essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantavano
ai massacri dei re,
essi che ballavano
alle guerre borghesi,
essi che pregavano
alle lotte operaie…

… deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri- usciranno da sotto la terra per uccidere-
usciranno dal fondo del mare per aggredire- scenderanno
dall’alto del cielo per derubare- e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra, per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli

Distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
Andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trockijal vento…

Questa poesia reca in calce la dedica ad un  “maître à penser”  francese: “A Jean Paul Sartre che mi ha raccontato la storia di Alì dagli occhi azzurri”.

Quanti ne abbiamo visti in questi ultimi anni, mesi e giorni, in tutti i telegiornali, di Alì dagli occhi azzurri ammassarsi sui barconi della morte sfidare le acque del Mediterraneo, saltare dalla Turchia alle isole greche, dalla Libia a Lampedusa, a Crotone, a Roccella Jonica, a Steccato di Cutro, oppure infrangere le barriere che alcuni vogliono erigere, altri hanno eretto, davanti alla loro disperazione? Pasolini li vuole quasi nominare uno per uno questi esseri “sempre umili, sempre deboli, sempre timidi, sempre infimi, sempre colpevoli”; parla di loro come di coloro che da secoli accettano tutte le dominazioni e si sono arresi ad un mondo sotto il mondo.

Eppure, adesso il tempo della migrazione si avvera e allora “deponendo l’onestà delle religioni contadine, dimenticando l’onore della malavita” anche i diseredati dilagano con la loro storia.

L’Europa ha capito molto bene che uno scoglio non può arginare il mare: meglio venire a patti con i vecchi disastri storici da essa causati piuttosto che alimentare futuri ed incontrollabili tsunami. E così parte della fortezza Europa diventa faticosamente terra d’asilo nello scenario di quella globalizzazione che si voleva servisse soltanto all’espansione incontrollata del capitalismo e del profitto. Ma intanto, come molti degli scritti pasoliniani, questa profezia non concede sconti all’occidente e inclina verso uno scenario che andrebbe scongiurato “…prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare a essere liberi, prima di giungere a New York, per insegnare come si è fratelli – distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica.”

La figura di “Alì dagli occhi azzurri” è una figura emblematica per il Pasolini dei primi anni sessanta, impegnato in una riflessione esistenziale sul rapporto tra Nord e Sud e tra cristianesimo e marxismo. Per Pasolini le due questioni si incrociano ed il punto focale della sua analisi poetica, la poesia Profezia, è scritta in modo da formare una croce.

Lo stesso titolo della raccolta “Alì dagli occhi azzurri”, che comprende racconti, sceneggiature, progetti di film tra il 1950 e il 1965, viene spiegato dall’autore alla fine del libro in una “Avvertenza” che descrive l’incontro con Ninetto Davoli in un cinema romano. Ninetto è un “messaggero” e parla dei Persiani. “I Persiani – dice – si ammassano alle frontiere. / Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati, / sono qui al capolinea del 12, del 13, del 409. Il loro capo si chiama / Alì dagli occhi azzurri”.

Versi della Profezia si possono trovare anche nel film “Uccellacci e uccellini” (1965/1966) in cui Pasolini fa dire a S. Francesco, nella sua predica agli uccelli: ”Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta fuori dal mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi” : ecco il terzo mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità.

Come porsi di fronte a questa alterità? S. Francesco coglie il problema e continua la sua predica così: “Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perché i nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede”.

L’indicazione è precisa: ci troviamo di fronte ad una aporia, ci scontriamo con una pietra dello scandalo. L’esistenza terzo mondo, per il mondo industrializzato, è scandalo, perché pone il problema non del concepire, ma del “ri-concepire” l’altro, cambiando i “nostri occhi troppo abituati alla nostra vita”, cosa che si può fare “solo attraverso Dio”.

Per vedere giusto ci vuole qualcosa che trascenda la nostra situazione. Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva di ogni rivoluzione posa su questo punto. La rappresentazione del sottoproletariato nel sacrificio e nella crocefissione è rievocazione di un mito ma anche descrizione di una attualità bruciante: un passato che non è passato ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere il terzo mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale.

Nella sua poesia Pasolini predisse oltre mezzo secolo fa una specie di invasione di extracomunitari.

Sono sbarcati nel 1991 in Puglia ed erano albanesi, ma la descrizione è esatta, basta guardare le immagini di quella nave stracarica di umanità per rendersene conto. E Pasolini l’ha fatta agli inizi degli anni sessanta quando l’emigrazione italiana del dopoguerra verso l’estero raggiungeva il suo massimo livello, dopo aver pagato un assurdo tributo di vite umane, qualche anno prima, nelle miniere di Marcinelle e nessuno si sarebbe immaginato una Italia paese di immigrazione, meta di profughi in fuga dalle guerre, dalla miseria, dalla fame su barche di fortuna, spesso inghiottite dal mare; e qualche volta scambiate da qualche politico di turno con navi da crociera da non accogliere nei nostri porti e alle quali, recentemente, rendere difficile la vita indicando porti di sbarco non quelli più vicini ai luoghi di salvataggio in mare, ma altri a centinaia di miglia di distanza allungando, in tal modo, le sofferenze inenarrabili di quella umanità sofferente a cui si addebita, perfino, l’irresponsabilità di essersi imbarcata alla ricerca di una vita degna di essere vissuta.  Né vale rifugiarsi nella spiegazione del giorno dopo accusando altri di avere travisato il senso delle parole, pesanti e taglienti come pietre.

Pasolini fu l’unico ad avere avuto questo fiuto sociologico, a decifrare il messaggio di Ninetto, il “messaggero”. Ma anche se questi fatti si sono avverati, essi comunque non costituiscono che l’aspetto esteriore della profezia. Il suo nucleo vero indica ben altro.

La dedica di questa poesia, scritta in forma di croce, chiama in causa Sartre, al quale Pasolini deve la storia di Alì dagli occhi azzurri. Pasolini lo ricorda allo stesso Sartre in un altro colloquio avvenuto nel dicembre 1964. Il Poeta si trova a Parigi per far vedere il Vangelo secondo Matteo; resta fortemente deluso, per non dire offeso, dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: “Ho dedicato a lei, Sartre, una poesia, Alì dagli Occhi Azzurri, sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma…”. E Sartre: ”Sono del suo avviso, che l’atteggiamento della sinistra francese di fronte al Vangelo…è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell’altro nel martirio di Cristo”.

In “La ricotta” Pasolini ha dato proprio questa interpretazione e la reazione della destra alla demistificazione dell’iconografia tradizionale è stata violenta. Ma ora, nella Profezia, il Poeta va ancora avanti, insiste sull’altro significato della croce, quello della redenzione/resurrezione. La poesia apre subito in tono biblico, racconta di un “figlio” che scende nella Calabria arida, dove “la luna color delle feci / coltivava terreni /  che mai l’estate amò. / Ed era nei tempi del figlio / che questo amore poteva / cominciare e non cominciò.                     

 

Ci troviamo nella Calabria della riforma agraria e l’amore poteva cominciare perché…era il tempo / quando una nuova cristianità / riduceva a penombra il mondo / del capitale.  Ma la “nuova cristianità” finisce nelle secche del razionalismo occidentale. “L’operaio di Milano” lotta con “tanta grandezza” per il suo salario, ha procurato inutilmente la riforma agraria al contadino del sud e lo ha “modernizzato inutilmente”.

 

Due volte e a brevissima distanza appare questa parola terribile: “inutilmente”. Il sapere del figlio si scontra con il sapere “inutile” dello sviluppo e…dei “concimi chimici/della lotta sindacale, degli scherzi / degli Enti Benefattori, della/Demagogia dello Stato / e del Partito Comunista… . E così il contadino del Sud compie il suo destino abbandonando la propria terra, emigrando verso il “meraviglioso sole del Nord”, sostituendo ai suoi “feticci oscuri” quelli nuovi di zecca, i frigoriferi, la televisione e la “Divinità Alleata” delle commissioni interne. E “tre millenni svanirono, non tre secoli, non tre anni”. Finisce così una storia millenaria, più grande di un’epoca?...Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere / è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa. Irrompe nel mondo non addomesticato e ci costringe ad un confronto con una concezione antitetica della vita, arrivano “essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare / essi che vissero come assassini sulla terra, essi che vissero come banditi / in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,” ai quali si rivolgeva la predica di S. Francesco, un santo mistico, “impregnato” di Oriente.

Con questa irruzione la poesia espande le ali, spicca un volo onirico e dischiude una grandiosa sintesi profetica: “Essi “insegnano” ai compagni operai la gioia della vita, ai borghesi la gioia della libertà, ai cristiani la gioia della morte”.

Il finale unisce il “dolce Papa (Giovanni XXIII) e Trotzky, il bolscevico “industrialista”, ma anche simbolo dell’eresia… distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe / della Storia Antica /. Poi col Papa e ogni sacramento / andranno come zingari / su verso l’Ovest e il Nord / con le bandiere rosse / di Trockij al vento.  

Non è forzato contestualizzare i morti di Steccato Di Cutro e delle tante migliaia che hanno trasformato in questi anni il Mediterraneo in un cimitero senza croci, perché la gran parte di essi è di fede musulmana o di altra ancora, e accomunarli, nella fratellanza, ai tanti Alì dagli occhi azzurri della Profezia pasoliniana.

di Damiano Montesanto
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