Mito, leggenda e realtà: viaggio a Girifalco

Viaggio nella “città dalle porte aperte” ai piedi del monte Covello, nel punto più stretto della penisola italiana, tra i golfi di Squillace e Sant’Eufemia

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di Giuseppe Gervasi
22 dicembre 2022
13:01

Il divano coccola per poco tempo il mio corpo.

Mi alzo, arrivo nel corridoio e inserisco la chiave per chiudere la porta.

È in quell’istante che decido di visitare la “città dalle porte aperte”, Girifalco, ai piedi del monte Covello, nel punto più stretto della penisola italiana, tra i golfi di Squillace e Sant’Eufemia.

Mi attende il mistero, la dolce follia e la generosità.


Ore 06:00, la melodia della sveglia accarezza le mie orecchie.

Attendo pochi secondi prima di allungare la mano per sospendere la delicata sinfonia, che rende piacevole il risveglio.

Il torpore del letto nasconde ancora per qualche minuto il viso del mattino e del primo freddo d’inverno.

Preparo il caffè e ne verso un po’ nella tazzina dai filamenti d’oro, che mostra il suo cuore nella parte centrale.

Mangio un cornetto farcito con della marmellata fatta in casa.

Faccio colazione gustando ogni piccolo morso e sorseggiando con estrema lentezza e ritualità il caffè.

La prima colazione è un momento di sacralità e di passaggio tra il risveglio ed il cammino.

Acqua calda sul corpo e subito dopo ritorno nella stanza per vestirmi.

“Dove vai?”

“A Girifalco, la città dalle porte aperte.”

“Stai attento.”

“Tranquilla, ci vediamo stasera, abbi cura di te.”

Girifalco dista da Riace dove vivo 72 Km: 1 h e 23 minuti il tempo necessario per arrivarci.

Accendo l’auto e inizia il viaggio.

Sette chilometri di tornanti, imbocco la statale 106 Jonica e la percorro per circa 33 chilometri verso Catanzaro.

Altri tredici chilometri sempre sulla statale e mi fermo innanzi ad un semaforo rosso.

Il bivio a sinistra con le indicazioni per Girifalco, Squillace, Vallefiorita, Amaroni, Palermiti.

Attendo pazientemente il verde e giro a sinistra.

Altri sei chilometri sulla SP 162, metto la freccia a destra ed entro nella SP 59: altri otto chilometri.

Uscita viale Antonio Migliaccio, due chilometri e mezzo e arrivo nel corso Garibaldi.

Lascio l’auto ad un centinaio di metri dal complesso monumentale di Girifalco: l’ex manicomio provinciale. 

Facile raggiungere un luogo con le indicazioni di una voce, che ti fa compagnia in auto.

Praticamente non si rischia più di smarrire la strada maestra, anche se, bisogna ammettere, che le più belle emozioni si provano nel perdersi lungo il cammino e poi immergersi nella gioia di averlo ritrovato.

È una giornata bellissima, l’azzurro diventa sfondo per ogni palazzo, per ogni finestra chiusa, che a breve si aprirà.

Mi bagno la mano nell’incantevole fontana di Carlo Pacino, realizzata nel XVII secolo.

Mi trovo in piazza Vittorio Emanuele II e innanzi a me la chiesa di San Rocco.

Entro un attimo per la solita preghiera in solitudine ed esco non appena un altro essere umano scopre le mie vergogne.

Uscendo ammiro ancora una volta la fontana e immagino il mito, la leggenda.

Era stata costruita dal demonio in una sola notte o per mano di abili scalpellini?

Nella sua peculiare forma ottagonale, con tre gradini posizionati su tutti i lati, i rami d’acacia, volute maestose e mascheroni simbolici, cattura lo sguardo del passante e anche il mio.

La celerità e il tempo necessario per realizzarla diedero fondamento a tale demoniaca e collettiva convinzione.

I contadini uscendo all’alba e tornando al tramonto videro completata la fontana e per tale motivo pensarono ad un intervento del demonio, ma in realtà era frutto esclusivo dell’abilità dei scalpellini, che riuscirono ad assemblare la struttura in poco tempo.

In questo luogo si incontra il mito, la leggenda e la realtà.

Pochi passi e innanzi a me l’imponente struttura dell’ospedale Psichiatrico di Girifalco: il vecchio manicomio provinciale in funzione dal lontano 1881.

Era stato un convento di Frati Minori e secondo alcuni in questo luogo trovò rifugio Tommaso Campanella.

Mi attende una scala con i gradoni invecchiati dal tempo e la porta socchiusa di un maestoso edificio color panna, con un balcone centrale e grandi finestre in legno.

Ecco il vecchio manicomio provinciale.

Prima di entrare faccio un lungo sospiro e cerco dentro la mia carcassa pesante il suono di un pianoforte e la voce di una poesia, per trovare il coraggio di andare avanti.

Un tempo un altro paese era dentro queste mura.

Il primo gradone, il secondo, il terzo.

Eccomi innanzi alla porta silenziosa e immensamente ermetica, come le menti vaganti di un luogo tutto da scoprire.

Un brivido lungo la schiena mentre varco la soglia, dietro di me una luce illumina l’entrata rimasta aperta.

Calpesto un pavimento a scacchi, sento voci lontane e mi fermo per ascoltare.

Altri gradini e poi il sorriso di un viso sconosciuto.

Passeggio nei corridoi lunghi e malinconici.

Un uomo intento ad arrotolare una sigaretta, seduto sulla base marmorea di un grande finestrone mi guarda quasi di nascosto. Decido di avvicinarmi e di ascoltare la sua storia, ci provo.

“Buongiorno come sta?”

“Bene.”

Mi presento e con tono delicato e cortese mi rivolgo al signore:

“Posso chiederle il suo nome?”

“È necessario sapere il mio nome? Credo che la cosa più importante sia esistere, vivere!”

“Ha ragione, la ringrazio e le chiedo scusa.”

Esistere, vivere, sognare, fumarsi una sigaretta in santa pace e chiudere gli occhi per accrescere ogni emozione.

Peregrinare dopo una lezione del genere ha ancora senso?

Cammino e mi sento gli sguardi addosso di foto in bianco e nero, che mostrano gli stagnini negli anni venti.

Noto una stanza e decido di entrare: è il luogo delle storie, delle passioni, del sangue e delle speranze.

Oltre 15.000 cartelle, oltre 15.000 vite vissute, oltre 15.000 pensieri e sogni.

È l’archivio dell’ex ospedale psichiatrico di Girifalco.

All’improvviso il silenzio, lastre di vetro a custodire vite macchiate dal tempo e sepolte in carpette di colore marrone.

In questo luogo si sente il profumo, il dolore di chi ha vissuto in gabbie mentali.

Prendo in mano solo per un istante la prima cartella, la prima vita sospesa: 22 luglio del 1881, la numero 1.

Era un essere umano, chissà cosa pensava, cosa sognava.

E poi l’ultima, la numero 15794.

Lascio l’archivio con gli occhi lucidi e vado via annichilito dalle emozioni di un luogo unico.

Porto con me le mani dei lavoratori di tappeti realizzati con le fibre vegetali, i volti delle donne, che su letti in fila avvolte in lenzuola bianche volgevano la testa a destra, a sinistra e in basso.

E poi chi lavorava la pasta esposta alla ventilazione.

Sento il profumo del pane sfornato e il suo calore mentre lascio l’ex manicomio.

Il cielo azzurro si inchina ad una rosa rossa e l’acqua limpida di una fontana continua a scorrere nonostante tutto, nonostante il tempo passato.

Allungo la mano e spengo la sveglia, è ora di alzarsi.

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