In aula

Nove anni d’attesa per l’Appello, l’ex deputato cosentino Bonaventura Lamacchia torna sotto processo 

Lui e suo fratello rispondono di violenza privata aggravata dal metodo mafioso per le presunte pressioni esercitate sul titolare di una clinica, con loro due ex carabinieri accusati di concorso esterno con il clan Bruni

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di Marco Cribari
15 aprile 2024
15:54

Il loro arresto risale al 2009, il giudizio di primo grado al 2015. Nove anni dopo - mese più, mese meno – i fratelli Bonaventura ed Ernesto Lamacchia stanno per affrontare il processo d’appello che, in precedenza, li ha visti condannati entrambi per violenza privata con l’aggravante del metodo mafioso. Sembra incredibile, ma è così. I tempi della giustizia italiana, si dirà. E chi al contrario ritiene che nove siano pochi, è perché forse avrà visto addirittura di peggio. Con loro, a condividere lo stesso percorso in aula, ci sono anche gli ex carabinieri Massimilano Ercole e Francesco Romano che, a differenza del già deputato Udeur e del suo congiunto, rispondono dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi, però, partono da un precedente verdetto di assoluzione perché «il fatto non sussiste».

La vicenda in questione rappresenta una costola dell’operazione “Telesis”, quella che a dicembre del 2009 porta in carcere l’intero organico della cosca “Bella Bella”, con in testa l’allora boss Michele Bruni, poi deceduto due anni più tardi per cause naturali. Fra i vari episodi criminali in tema di droga, armi, usura ed estorsioni contemplati nell’inchiesta, uno in particolare riguarda i fratelli Lamacchia. In quei giorni, infatti, la Dda li accusa di aver esercitato pressioni sul titolare di una clinica cosentina - un figlio di Ennio Morrone, collega di partito dell’imputato - per convincerlo a dirottare tutti i servizi funebri della struttura sanitaria verso una ditta che si riteneva fosse controllata dal clan di ‘ndrangheta.


All’epoca, da alcune intercettazioni telefoniche emerge un rapporto di cordialità tra Bonaventura e Michele Bruni. «Avevo paura di lui» si giustificherà in seguito l’ex presidente del Cosenza calcio, ma tant’è: in precedenza, lui stesso aveva tentato di favorire un incontro tra il boss e il titolare della clinica, senza riuscirvi a causa dell’opposizione di quest’ultimo. E da qui, se n’era uscito con frasi in apparenza minacciose - «Ohi Miché, ce la facciamo fare a forza, se no lo picchiamo a schiaffi nel muso» - che risulteranno poi decisive per la sua incriminazione.

Anche la parte offesa ci aggiunge un carico: «Bonaventura Lamacchia – spiega in quei giorni ai magistrati – diceva che Michele c’era rimasto male per il fatto che non lo avevo voluto incontrare. E concludeva il discorso dicendo: tanto ti conosce e sa dove abiti». Nella vicenda, si incastra anche il ruolo attribuito a Ernesto Lamacchia, medico che in passato aveva svolto le mansioni di direttore sanitario della clinica in questione di cui deteneva il 33% delle quote. E anche lui, secondo l'accusa, aveva tentato di convincere il socio di maggioranza a concludere l’affare con i Bruni.

Morale della favola: l’accusa ipotizzata in partenza nei confronti dei Lamacchia è di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Dopo un paio di settimane, però, il Tribunale del Riesame ridimensiona, attribuendole i crismi della violenza privata. Ciò nonostante, cinque anni dopo, nell’udienza decisiva, la Procura antimafia propone in aula tesi a sostegno dell’imputazione originale, chiedendo la condanna di entrambi a sette anni di reclusione. I giudici opteranno per la riqualificazione al ribasso, decretando sei mesi di pena ciascuno. Segue un lungo intervallo. Per certi versi, simile a un oblio.

Il limbo in cui sembravano finiti i due fratelli si spiega anche con il percorso processuale intrapreso allora. Su quarantanove imputati, infatti, quasi tutti scelgono l’abbreviato e risolvono in tempi brevi la partita che li riguarda. Tutti tranne i Lamacchia. E gli ex carabinieri. All’epoca, Ercole e Romano erano titolari della discoteca “Sin club” di Zumpano, la cui gestione, secondo gli inquirenti, era in mano ai “Bella Bella”. In tal senso, s’ipotizzava che quello esercitato dalla cosca, fosse un controllo assoluto che si estendeva dai parcheggi fino all'organizzazione delle serate danzanti, ma è un teorema che non troverò conforto in aula.  Non a caso, dal dibattimento emerge che uno dei militari era stato completamente estromesso dalla gestione della discoteca e che aveva tentato più volte di rientrare in possesso dei soldi da lui investiti in quel progetto. L’altro, invece, era all’oscuro di ciò che ruotava attorno al locale notturno di Zumpano. La condanna invocata per loro è identica a quella dei Lamacchia, ma il verdetto finale sarà per entrambi nel segno della non colpevolezza.

Nove anni dopo, quindici a voler riconsiderare questa storia dal principio, il nastro si riavvolge. E il passato torna a essere attuale. L’udienza in programma oggi a Catanzaro, manco a dirlo, è saltata per un’irregolarità negli avvisi notificati ai difensori Maurizio Nucci, Pio Miceli De Biase, Roberto Le Pera, Franz Caruso ed Elena Florio. Se ne riparlerà il 3 giugno, giorno in cui tutto avrà di nuovo inizio. A volte ritornano. Sembra il titolo di un romanzo di fantascienza, ma è solo cronaca giudiziaria.

Giornalista
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