L’inchiesta

Cosenza, prendevano il permesso di soggiorno e poi andavano a cercare fortuna altrove: «Qui non c’è niente»

Per ripagare il debito i migranti partivano per trovare lavoro in altre città. E il caso dei sette pakistani potrebbe essere solo la punta dell’iceberg: le intercettazioni rimandano all'esistenza di un sistema rodato che andrebbe avanti dal 2012

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di Marco Cribari
9 febbraio 2024
17:06

Ammonterebbe a cinquemila euro o poco più la somma pagata dai pakistani “cosentini” per ottenere i documenti che ne attestavano l’assunzione fittizia presso un’azienda agricola o come badanti al servizio di anziani. Il sospetto nasce da un’intercettazione raccolta nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto di cinque persone con l’accusa di favoreggiamento della permanenza illegale nel territorio dello Stato.

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Cinquemila euro, un pacchetto che includeva le quote degli intermediari e dei finti datori di lavoro, oltre a quelle destinate ai registi dell’operazione, coloro i quali predisponevano la certificazione utile a conseguire gli agognati permessi di soggiorno. I beneficiari dell’imbroglio saldavano a rate, sbarcando il lunario con impieghi umili quali lavapiatti o venditori ambulanti, va da sé: il tutto rigorosamente in nero. Altro che “emersione”.


Per onorare il debito, alcuni si allontanavano dalla Calabria per andare a cercare fortuna in grandi città, Napoli in primis. «A Cosenza non c’è riso» afferma uno di loro in una captazione, che nell’uso pakistano significa «a Cosenza non c’è niente». Niente con cui sopravvivere. Alla loro partenza faceva seguito, di volta in volta, il licenziamento dal posto in cui risultavano assunti. A quel punto, infatti, non c’era più bisogno di simulare la loro presenza sul luogo di lavoro.   

Sono sette i casi su cui l’ufficio diretto da Mario Spagnuolo ha acceso i riflettori, tutti avvenuti dal 2020 in poi. Con ogni probabilità, però, è solo la punta di un iceberg. L’inchiesta cosentina, infatti, riguarda sette pakistani, ma negli atti si fa riferimento a un’operazione analoga che sarebbe stata compiuta dalle stesse persone in favore di cinque bengalesi, vicenda per cui sono in corso le indagini di un’altra Procura calabrese.

E non solo. Sempre le intercettazioni rimandano all’esistenza di un sistema molto più ampio e rodato che addirittura andrebbe avanti dal 2012. Un traffico che gli indagati avrebbero avuto intenzione di perfezionare, utilizzando come paraventi non più i privati – ritenuti troppo emotivi e poco affidabili – ma solo realtà imprenditoriali. «Lo faccio con le aziende, ma con i cristiani no» è un po’ l’espressione che sublima il progetto ormai naufragato.   

 

Giornalista
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