I vescovi calabresi rispondono alla Commissione Antimafia

Replica dei vescovi calabresi alle parole del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sul silenzio della Chiesa in seguito alle morti di don Puglisi e don Diana
di Redazione
4 marzo 2015
10:11

“Parole fanno male – scrivono i vescovi calabresi in risposta al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti - perché denotano una lettura superficiale e una conoscenza approssimativa del pur faticoso forse a tratti lento ma in ogni caso ininterrotto cammino che proprio la Chiesa ha compiuto dal secondo dopoguerra a oggi, nella comprensione e nella trattazione del fenomeno mafioso”.

 


Il procuratore Roberti ha parlato del silenzio della Chiesa dopo la morte di don Peppino Diana e del beato Pino Puglisi e ha dichiarato “che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie e che grande responsabilità per i silenzi sia della Chiesa. Siamo dovuti arrivare al 2009 per iniziare a parlarne”.

 

“Ma un conto è parlare di ritardi, che pure ci sono stati – scrivono dalla Conferenza Episcopale Calabra - e un altro è farli passare per immobilismo, silenzi, omissioni e talvolta larvata connivenza. Il dottor Roberti non sa evidentemente della Lettera pastorale del 1948 dei vescovi meridionali, cui seguì il 30 novembre 1975 una lettera dei Vescovi calabresi dal titolo "L’episcopato Calabro contro la mafia, disonorante piaga della società. Così come hanno ricordato recentemente i vescovi della Calabria nella Nota pastorale sulla ‘ndrangheta significativamente intitolata “Testimoniare la verità del vangelo”. Non sono mancate irresponsabili connivenze di pochi, nonché silenzi omertosi: e di questo i credenti sanno e vogliono chiedere perdono. Ma accanto alla gramigna, silenziosamente cresce il campo del bene che si distingue, senza mezzi termini, per la sua luminosità e la sua coerenza. Nell'ultimo ventennio, c'è stato, un fiorire di iniziative ecclesiali, associative, culturali, che hanno recepito e tradotto le istanze evangeliche di liberazione della terra calabrese”.

 

“Noi crediamo - aggiungono - che per sconfiggere il male ciascuno deve fare il proprio dovere, fino in fondo. Siamo convinti che alla Chiesa si debba chiedere di essere Chiesa, nello spirito e nell'insegnamento del Vangelo e non altro. E lo Stato deve fare lo Stato. Il 21 giugno 2014 a Sibari e il 21 febbraio scorso a Roma Papa Francesco è stato chiaro, fermo, forte. E' sulla strada indicata dal Santo Padre che camminano le Chiese del Sud sia pure con i loro guai terreni, forse non sempre con la speditezza necessaria, magari in qualche caso zoppicando, ma convinte, senza riserve né sconti per nessuno. Certo, molto resta da fare. Il cammino verso il futuro, sia chiaro, è irreversibile. Non aver considerato tutto ciò e tanto altro, lascia l'amaro nei cuori e non fa di certo progredire l'unità di intenti tra tutte le istituzioni e la Chiesa”.

 

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