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Le navi dei veleni: il mistero della Michigan

Le navi dei veleni: i misteri della Michigan
di Pietro Comito
Coordinamento editoriale: Manuela Serra

Le carte mai svelate su uno dei relitti sui quali indagava Natale De Grazia. Andò a picco quattro anni prima dello spiaggiamento della Rosso: stessa sorte e, in alcuni passaggi chiave dei rispettivi rapporti, stesse parole per spiegare i due sinistri marittimi. Dalle indagini giudiziarie a quelle parlamentari sui presunti carichi radioattivi in fondo al mare

Misteri alla deriva della storia, come quelle navi colate a picco nel Mediterraneo coi loro carichi sospetti. Misteri che le indagini delle Procure interessate e delle Commissioni parlamentari d’inchiesta non hanno chiarito ma addensato, nell’impossibilità fin qui dichiarata di scendere in profondità, raggiungere i relitti, esaminarne le stive. Misteri che però restano, come le carte custodite in polverosi archivi. Narrano di poderosi vecchi mercantili salpati dai porti di La Spezia o Massa Carrara, quasi sempre carichi di granulato di marmo, che le indagini dell’allora pm di Reggio Calabria Francesco Neri e del capitano di fregata Natale De Grazia, ritenevano fosse usato per schermare rifiuti radioattivi o comunque altamente tossici. Le navi – il sospetto – affondate per smaltire le scorie nucleari o nocive, gli armatori che incassavano i soldi delle assicurazioni. Un fenomeno denunciato per la prima volta la Legambiente. Audito dal Copasir, l’ammiraglio Bruno Branciforte, già capo del servizio segreto interno, riferì di 55 affondamenti sospetti; sono stati 44 secondo una relazione che la Direzione marittima di Reggio Calabria trasmise alla Commissione parlamentare antimafia nel 2009; 39, tra il 1979 ed il 1995, secondo la relazione che Commissione parlamentare sulle ecomafie approvò nel 2000.

Stessa sorte, stesse parole...

Foglio 13 del Rapporto riassuntivo sul sinistro marittimo occorso alla motonave Rosso il 14 dicembre del 1990. Il mayday al largo di Capo Suvero, il bastimento alla deriva fu spiaggiato dalla corrente sull’arenile di Campora San Giovanni.
Ciò premesso a qualunque ipotesi ci si voglia riferire per spiegare la dinamica del sinistro, si deve ritenere che l’equipaggio non poteva far niente per salvare la nave una volta accertata la presenza dell’acqua nella stiva e nel locale motore. Sono comunque da escludere elementi di dolo o colpa
Foglio 8 del Rapporto riassuntivo relativo alle indagini sommarie esperite sull’affondamento della motonave Michigan, che a Capo Suvero lanciò il mayday e poi dalle correnti fu spinta più a Sud, verso Capo Vaticano, dove affondò: correva il 31 ottobre 1986. Quattro anni prima.
Ciò premesso a qualunque ipotesi ci si voglia riferire per spiegare la dinamica del sinistro, si deve ritenere che l’equipaggio non poteva far niente per salvare la nave una volta accertata la presenza dell’acqua nella stiva e nel locale motore. Sono comunque da escludere elementi di dolo o colpa

I sospetti… ma 19 anni dopo

A firmare entrambi i rapporti fu il comandante in seconda della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia Giuseppe Bellantone, che nel 1986 aveva il grado di capitano di corvetta e nel 1990 quello di capitano di fregata. Quando il 20 aprile del 2005 fu sentito dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti relativamente allo spiaggiamento della Rosso, partita da Malta il 13 dicembre 1990 con destinazione La Spezia, riferì: «Noi avevamo già avuto a Vibo un affondamento, quello della Michigan. Avevamo seguito attentamente anche quel caso, però noi, pur avendo avuto qualche sospetto, non abbiamo mai trovato alcun elemento cui agganciarci. Abbiamo avuto qualche sospetto – proseguiva l’ufficiale, che nel frattempo aveva raggiunto il grado di capitano di vascello – che poteva riguardare le assicurazioni, però non abbiamo trovato niente di concreto. Era tutto regolare, anche se ci era venuto il dubbio che potesse trattarsi di navi fatte affondare. Va però detto che i rischi sono grandi anche per il personale; bisogna stare molto attenti: nessun comandante fa affondare la nave facendo rischiare la vita al personale. Effettivamente, abbiamo avuto qualche dubbio». Nessuno dei sospetti paventati nel 2005 davanti alla bicamerale d’inchiesta fu però annotato nel rapporto redatto sull’affondamento del 1986. Così pure in quello relativo allo spiaggiamento della Rosso, nel 1990.

Le due navi

Il carteggio relativo all’affondamento della Michigan è rimasto per oltre trentacinque anni negli archivi della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia. E fino ad oggi questo mercantile altro non è stato che una delle tante, troppe, presunte navi dei veleni sulle quali indagava il capitano di fregata Natale Grazia, poi deceduto in circostanze sulle quali mai si è fatta piena luce, il 12 dicembre del 1995: un nome, con accanto l’indicazione sommaria del punto in cui è colata a picco, e nulla più. Quanto alla Rosso - al netto dei fiumi d’inchiostro versati da inquirenti, giornalistie studiosi - forse sono sufficienti le parole contenute nella richiesta di archiviazione dell’indagine penale, trasferita per competenza territoriale prima da Reggio Calabria e poi da Lamezia Terme, vergata dal pm di Paola Francesco Greco il 7 gennaio 2009: «Originariamente denominata Jolly Rosso veniva definita la nave dei veleni per essere negli anni ’80 coinvolta in trasporti internazionali di rifiuti e sostanze tossico nocive».

La Michigan: origini e partenza

La Michigan era una nave costruita a Rio de Janeiro nel 1967, di proprietà della Golden Trade spa, con sede a Napoli. Adibita alla cosiddetta «navigazione internazionale lunga», era salpata dal porto toscano di Massa Carrara con certificate «buone» condizioni di partenza e senza alcun «lavoro di trasformazione eseguito». In possesso di tutta la documentazione necessaria, nelle sue due stive trasportava - secondo l’istruttoria esperita dall’allora Ministero della Marina Mercantile - 2.100 tonnellate di granulato di marmo. A bordo un equipaggio composto da undici uomini: quattro ufficiali (comandante compreso), cinque marittimi in coperta e due di macchina.

La rotta, l'sos, l'abbandono nave

Partitada Massa Carrara alle 17 del 27 ottobre del 1986 e diretta a Molfetta, in Puglia, secondo le indagini amministrative esperite la nave sarebbe stata costretta a viaggiare a ridosso della costa a causa delle cattive condizioni meteo marine. Vento forte e mare in burrasca, in particolare, tra le 8 e le 10 del mattino successivo, quando si fermò per circa due ore.
La mattina del 30, mentre era al timone – così è scritto nel rapporto della Capitaneria - il comandante «ha notato che la nave non governava come di consueto». Una circostanza riscontrata anche dal primo ufficiale nel turno di guardia tra le 2 e le 7 del mattino. Scesi nelle stive, veniva rilevata la presenza di acqua. Il comandante a questo punto ordinava fossero attivati i motori per prosciugare le sentine, ma anche i locali macchina erano allagati e l’operazione diventava impossibile. Alle 9:20 del 30 ottobre il comandante lanciava il mayday, alle 10:15 dava ordine di ammainare la lancia e abbandonare la nave, mettendosi preventivamente in contatto con la motonave Giamaica, che era già in rotta di avvicinamento alla Michigan e che alle 10:45 recuperava i naufraghi dalla lancia di salvataggio

Il rimorchio

Alle 12:00 la Michigan e la Giamaica erano raggiunte dai mezzi navali salpati dal porto di Vibo Marina. Solo alle 17:00 la Michigan era avvicinata dal rimorchiatore Torre Avolos, partito da Messina alle 12:00, e alle 18:30 dal rimorchiatore Pianosa. Agganciata la nave alle 17:24, il Torre Avolos riferiva di dirigersi verso Messina. Alle 18:25, però, il cavo di rimorchio si spezzava. Gli oblò erano ormai a pelo d’acqua e la nave di fatto sembrava già destinata a colare a picco. Alle 20.15 restava il solo Pianosa a rimorchiare la Michigan. All’1:55 del 31 ottobre la Michigan affondava nelle acque antistanti Capo Vaticano, a circa 11 chilometri dalla costa, tra i 500 ed i 600 metri di profondità.
«Il dato che rende sospetto l’affondamento della Michigan – disse l’allora pm antimafia di Reggio Calabria Alberto Cisterna in Commissione parlamentare, il 25 settembre 1997, in una parte secretata fino al 16 maggio 2014 – è costituito dal fatto che dallo stesso porto era partita anche la Rigel. Inoltre lo spedizioniere del carico della Michigan è lo stesso della Rigel, tale Figlié, poi inquisito con riferimento alla truffa assicurativa commessa da alcuni soggetti nell’affondamento della Rigel. Inoltre la Michigan è affondata proprio nello stesso punto in cui risulta abbandonata dall’equipaggio la motonave Rosso spiaggiata». La Rigel, affondata il 21 settembre 1987 a largo di Capo Spartivento, era la nave principale nelle indagini condotte dal capitano De Grazia: qui l’inchiesta giudiziaria accertò come l’inabissamento sia stato doloso.

Le conclusioni sulla Michigan

Ma cosa provocò le infiltrazioni d’acqua che condussero all’affondamento della Michigan? Due le possibilità, secondo quanto scrisse il comandante Bellantone. Foglio 7 del Rapporto riassuntivo redatto dalla Capitaneria di porto, la premessa: «In base alle osservazioni della precedente parte II si ritiene possa escludersi l’urto contro un corpo semigalleggiante in quanto poco verosimile e del resto mai avallato dalle dichiarazioni di alcun membro dell’equipaggio».
Quindi, opzione A: «In base agli elementi disponibili è ragionevole ritenere che è possibile che durante la navigazione a causa del forte vento e mare che sicuramente frangeva in coperta si sia verificata la infiltrazione d’acqua nelle stive di qualche boccaportello di accesso alle stesse. Il conseguente aumento di umidità del minerale avrebbe fatto scorrere lo stesso che, con i violenti movimenti di rollio e beccheggio, sbattendo contro le fiancate potrebbe aver provocato una via d’acqua…».
Opzione B:«Il sinistro, forse con più probabilità, può essere attribuito alle condizioni meteo che ha incontrato la nave e che può aver provocato la dissaldatura di qualche lamiera del fasciame a cavallo tra la stiva numero 2 ed il locale macchine con conseguenti infiltrazioni di acqua in entrambi i locali».

Le conclusioni sulla Rosso

Una ricostruzione che in buona parte ritorna nel Rapporto riassuntivo sullo spiaggiamento della Rosso (la quale non trasportava granulato di marmo ma vari container di tabacco, nylon, prodotti per bevande, mezzi e rimorchi), quattro anni dopo. Dal foglio 12: «In base alle osservazioni della precedente parte II si ritiene possa escludersi l’urto contro un corpo semigalleggiante in quanto poco verosimile e del resto mai avallato dalle dichiarazioni dell’equipaggio». Quindi le due possibilità sulle ragioni dell’incidente marittimo. La prima: «È possibile che durante la navigazione, a causa del forte vento e mare che sicuramente metteva a dura prova le strutture della nave nonché il rizzaggio del carico, un carrello o un contenitore abbia effettivamente rotto le rizze incastrandosi in qualche parte dove non avrebbe arrecato alcun danno se non fosse intervenuta quell’onda anomala che potrebbe averlo fatto saltare dal suo alloggio provvisorio, scaraventandolo contro la paratia sinistra della stiva poppiera causando così una via d’acqua di notevoli dimensioni».
Opzione B: «Il carico potrebbe aver retto sino alle 07:00 quando è sopraggiunta sempre questa onda anomala che potrebbe aver provocato la rottura di più rizze di diversi contenitori i quali sarebbero sbattuti sulla fiancata di sinistra con conseguenti aperture di vie d’acqua».
Opzione C: «Il sinistro può essere attribuito alle condizioni meteo che ha incontrato la nave e che può aver provocato la dissaldatura di qualche lamiera del fasciame a cavallo tra la stiva numero 1 e la stiva numero 2 con conseguenti infiltrazioni di acqua in entrambi i locali».

Le note finali (quasi) uguali

Ancora, dal rapporto sulla Michigan: «Dagli elementi di valutazione disponibili non è possibile formulare ipotesi diverse da quelle di cui sopra né effettuare ulteriori accertamenti perché la nave si trova in fondali di oltre 600 metri».
Ancora, dal rapporto sulla Rosso: «Dagli elementi di valutazione disponibili non è possibile formulare ipotesi diverse da quelle di cui sopra anche perché, essendo la nave arenata e fortemente sbandata sul lato sinistro, non è stato possibile, allo stato attuale, verificare l’ubicazione né l’entità delle vie d’acqua». Stesse conclusioni, in larga parte sovrapponibili.
Silvio Greco, biologo marino, già all'assessore all'Ambiente della Regione Calabria e consulente della Procura di Paola sul caso Cunski

Da Reggio Calabria a Paola

Ma torniamo alla Rosso e all’indagine giudiziaria: un giallo irrisolto, dopo trentatré anni. L’ultima archiviazione è del 12 maggio 2009: il gip di Paola Salvatore Carpino accolse la richiesta del pm Francesco Greco. Doveva essere la pietra tombale sul naufragio della motonave ed il suo carico sospetto, spiaggiati in località Formiciche di Amantea la mattina del 14 dicembre 1990. La prima temuta «nave dei veleni», circondata da un «alone di intollerabile sospetto» come scrisse nella sua relazione del 15 febbraio 2006 la Commissione parlamentare ecomafie. Quel naufragio alimentò le indagini della Procura di Reggio, che aveva iniziato a ricostruire le rotte delle «navi a perdere» affondate (proprio come la Rigel nel 1987), secondo un presunto «pactumsceleris» tra ’ndrangheta ed imprenditori nello smaltimento dei rifiuti. Anche il gip in riva allo Stretto, il 14 novembre del 2000, archiviò l’inchiesta del pm Franco Neri, disponendo la trasmissione degli atti - in relazione al naufragio della Rosso - alle Procure di La Spezia e Lamezia. Quest’ultima, a sua volta, ravvisò la competenza territoriale a Paola, dove i faldoni approdarono il 10 maggio del 2003: sei anni dopo, ravvisata l’insufficienza degli elementi per sostenere l’accusa in giudizio contro Giorgio Comerio (l’uomo dei misteri che progettava di far inabissare i rifiuti nucleari nei mari di mezzo mondo) e coindagati, calò il sipario.

L’ufficiale in Commissione Ecomafie

Caso chiuso; anzi, no. Perché su quel naufragio (come su tutti gli altri) permane una coltre di mistero e perché in ciò che si verificò ad Amantea dal 14 dicembre 1990 in poi potrebbe celare alcune delle verità nascoste sulla morte del capitano Natale De Grazia, il cacciatore di «navi a perdere» deceduto in circostanze misteriose a Nocera Inferiore il 13 dicembre 1995: era diretto a La Spezia, da dove cinque anni prima era salpata la Rosso. È su questo che continuò ad indagare la Commissione Ecomafie presieduta da Gaetano Pecorella, che l’8 marzo 2011riconvocò il contrammiraglio Giuseppe Bellantone, ovvero il comandante della Capitaneria di porto di Vibo Marina che seguì lo spiaggiamento della Rosso e prima ancora il naufragio della Michigan. I commissari volevano sapere da chi avesse appreso della presenza di agenti dei servizi segreti a bordo della nave spiaggiata. «Non ho mai detto che ci fossero agenti dei servizi segreti», replicava.

Gli agenti segreti… Forse

Il presidente Pecorella aveva a disposizione, però, gli atti delle inchieste esperite dall’autorità giudiziaria e produsse un assistalla memoria del teste: «Mi venne riferito –aveva detto alla magistratura l’ufficiale – che si erano recati a bordo agenti dei servizi segreti». Qualcosa, così, iniziò a ricordarla. Ricordava, ad esempio, che attorno alla Rosso bazzicavano un po’ tutti: carabinieri, finanzieri, poliziotti, l’equipaggio, i tecnici dell’armatore. Se ci fossero stati o meno i servizi segreti, però, resta un mistero: «I documenti a volte si controllano e a volte no. Adesso non so se li controllavamo. Penso di no». La commissione non era convinta e annotava alcune contraddizioni dell’alto ufficiale, che asseriva: «Non era una nave con particolari problemi...».
L’onorevole Pecorella lo interruppe: «Non è così, perché lei stesso ha detto che questa nave rappresentava qualcosa di particolare, tant’è che l’equipaggio non voleva più tornare a bordo e lei ritenne di dover fare questa indagine sulla presenza di sostanze radioattive». Bellantone ribatteva: «No. Ho fatto questa indagine sulle sostanze radioattive perché la gente da terra si lamentava e protestava, dicendo che la nave aveva portato scorie radioattive».

De Grazia «come un figlio»

L’audizione si concentrava poi sul protocollo adottato nella conduzione dell’inchiesta sommaria: carte e documenti di carico erano in regola; non c’erano tracce di radioattività. Bellantone non aveva più in memoria molte cose, soprattutto quando il confronto dirottava sul capitano De Grazia. «Per me era come un figlio», disse. Sulla Rosso avrebbero avuto solo «uno scambio di battute» e non gli avrebbe mai mostrato dei «documenti». Né Bellantone avrebbe mai incontrato il maresciallo Scimone, ovvero il sottufficiale dell’Arma che De Grazia sospettava fosse un uomo dei servizi. Il presidente Pecorella replicò: «Senta, io sono veramente sorpreso. Leggo testualmente dalle sue dichiarazioni: “Preciso che solo successivamente, riflettendo su quanto accaduto, misi a fuoco la circostanza che alcuni dei documenti di cui sopra facevano riferimento alla radioattività. Ciò accadde precisamente in seguito alla visita presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia del dottor Neri, oggi presente, del maresciallo Scimone”, che lei oggi dice di non aver incontrato, “e del compianto capitano De Grazia”. E qui descrive che il capitano De Grazia le mostrò i documenti fatti come “triangoli” eccetera, e lei ricordò che erano sulla nave e così via…». Bellantone prendeva atto: «Sì, va bene. Ci sono delle cose che forse ho detto, ma che non ricordo più».

Il tempo nemico della verità

La ratio dell’audizione è tutta nella chiosa del presidente: «Se facciamo queste domande c'è un motivo. In quell’area sono state trovate tracce di radioattività significative, esattamente nell’area dove presumibilmente è avvenuto lo scarico di ciò che si trovava sulla Jolly Rosso. Ora, siccome è possibile che il mare della Calabria o di altre zone d'Italia sia stato inquinato con sostanze radioattive di navi che sono affondate o che si è tentato di affondare, ecco perché noi le chiedevamo uno sforzo di memoria». D’altronde è passato troppo tempo. E il tempo, si sa, talvolta è il peggior nemico della verità.