LONG FORM

Gli ultimi pescatori nel recinto delle grida dell’asta di Schiavonea

Gli ultimi pescatori nel recinto delle grida dell'asta di Schiavonea
di Luca Latella
Coordinamento editoriale: De Girolamo, Rende, Serra
Video editing: Vallone
Nel borgo marinaro di Corigliano Rossano ogni giorno si consuma un rito antico: la vendita del pescato. Le urla del battitore si mescolano all’eccitazione degli acquirenti che cercano di accaparrarsi al miglior prezzo spigole, orate, triglie, scampi, merluzzi. Uno spettacolo che fa parte dell’identità stessa di questi uomini che vivono in simbiosi col mare. Ma anno dopo anno i pescatori diminuiscono: troppi rischi, tanti divieti e scarsi guadagni. Ecco la loro storia
«U mare suca ru sangue ari marinari e ri porta un saccio adduve. U mare quanno ti cogghia tu senti ntri rini, passo ppe passo quanno camini. U sule quanno ti cocia t'abbritta ri carni, facce nivure e capo pisanti, è ra terra ca scivula chiano, u mare ti stringia e ti porta luntano. U mare liga ru core a nu metro da riva, cume si sta quannu a varca unn'arriva. L'unna mmutta l'acqua a ra terra luntana, chiddu ca trova e chiddu ca mina. E' ru iurnu ca sciodda ntra sira, levati Mico ch'è fatta matina. Chiss'è ra vita e ri marinari, chiss'è ru core e ri marinari, chiss'è ru sangu e ri marinari».
Gente di mare, gente orgogliosa, fiera del proprio lavoro, come quella di Schiavonea. Ci perdonerà per la citazione, il buon Peppe Voltarelli, ma la sua canzone “Marinai”, condensa l’impeto, la forza, l’orgoglio della gente di mare. Gente che porta avanti una tradizione ultrasecolare, con una fatica immane, ma rischia di scomparire
A Schiavonea, borgo marinaro di Corigliano Rossano, su circa ottomila abitanti la metà è impiegata nel mondo della pesca. Un meraviglioso mondo fatto di gente vera, sincera, che spesso esce in mare la domenica notte per ritornare a casa il giovedì.
Una routine che – a parte il fermo biologico – si ripete all’infinito, nella speranza che il prossimo pescato sia meglio di quello precedente e che rimpingui i guadagni di una vita dedita al mare, al sole, alle intemperie che scolpiscono i visi e le espressioni, alla sofferenza e certo, anche alla paura di non tornare a casa. Schiavonea piange ancora l’immane tragedia consumatati il 31 dicembre 1974: il mare inghiotte dodici pescatori.

«Insieme a familiari, pescatori e tanta gente del paese ero su questa spiaggia per assistere, inerme, alla più grande tragedia di sempre della nostra marineria. Quattro pescatori (due zii e due nipoti giovanissimi) furono inghiottiti dal mare di fronte a parenti e amici, mentre altri sei pescatori persero la vita presso la vecchia foce del Crati e due in mare aperto», racconta Salvatore Martilotti, già responsabile regionale della Lega Pesca.
Quell’esperienza segna tanti e tante generazioni, ma la pesca non può fermarsi, come tutte le passioni. Perché per la gente di Schiavonea la pesca non è solo un lavoro, ma una filosofia di vita.
Una vita – però – complicata e gravata da mille problemi che stanno spegnendo pian piano il settore ittico. Sempre più giovani tirano i remi in barca e di proseguire le tradizioni di famiglia – forse a giusta ragione – nemmeno a parlarne. Troppi sacrifici e rendite sempre più ridotte.

La flotta peschereccia di Schiavonea è tra le più importanti del sud Italia, subito dietro a Molfetta e Mazzara del Vallo. Fino agli anni ’90 contava ben oltre novanta grandi pescherecci.
Oggi sono sopravvissuti appena la metà. Sulla porzione di spiaggia dedicata, invece, alla piccola pesca, quella ad esempio dei gozzi, di barche ce n’erano oltre 120. Anche quelle, oggi, sono meno della metà. E questo a causa di una “marea” di problemi. Come quelli generati dall’Unione europea con normative e restrizioni discutibili, «applicabili certamente nel mare del Nord ma non allo Ionio o nell’Adriatico», a cui si sommano tutta una serie di contingenze. Last but not least, quella bolla speculativa gonfiatasi con il conflitto russo-ucraino che ha causato il caro gasolio che ha bloccato il comparto per molti mesi, in parte attenuatosi in queste ultime settimane.

Un tesoro strappato con fatica al mare ma difficile da vendere

Una delle grandi questioni – in fondo mai risolte – rimane la commercializzazione del pescato. Ovvero la valorizzazione delle battute di pesca in mare che “costano” sempre più immani sacrifici.
Oggi tutto dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – passare dal mercato ittico, gestito dalla Meris, una società partecipata inizialmente pubblico-privata a trazione comunale che fino a non molto tempo addietro produceva quasi esclusivamente passivi.
Molti armatori – i proprietari delle imbarcazioni – peraltro, bypassano quel mercato ittico impantanato nelle sabbie mobili della burocrazia ed in una gestione «discutibile» per rivolgersi ad altre vie di commercializzazione.
Dal lunedì al giovedì alle 16,30, al mercato ittico – sfruttato in minima parte rispetto alle potenzialità enormi di sviluppo che potrebbe richiamare una ben più vasta ed ampia platea di compratori – va in scena l’asta. Un tempo i “battitori” erano diversi, oggi si sono ridotti e si alternano nell’“offrire” il pescato ai compratori autorizzati a partecipare all’asta, in quello che è un vero spettacolo tra cassette di pesce, gesti, urla, slang, numeri. Per intenderci, con le dovute proporzioni in formato autoctono, le scene sono simili ai film americani su Wall Street, in cui i broker si sbracciano per segnalare l’acquisto delle azioni. 
L'asta del pesce a Schiavonea

«Le regole europee ci stanno uccidendo»

In questo momento storico, dunque, a Schiavonea, si sopravvive. Nel raccogliere testimonianze non mancano malumori, speranze e preoccupazioni che la pesca scompaia nel 2030 per effetto di nuove norme che non consentiranno più l’utilizzo delle reti a strascico, ma anche per via dell’obbligo di dover istallare a bordo i circuiti di videosorveglianza, come racconta Francesco Martilotti, comandante del peschereccio “Grecale”.
«Solitamente usciamo a mezzanotte di domenica per fare rientro martedì sera. Nell’ultimo periodo stiamo battendo sotto costa, in uno specchio di mare che va da Cariati a Scanzano Ionico. Queste ultime – racconta Martilotti – sono settimane dure e tra caro gasolio, mucillagini, stiamo andando incontro a grandi difficoltà». Francesco, come tanti, contesta il periodo del fermo biologico, quel mese in cui la pesca si stoppa per consentire il ripascimento.
«La Calabria – dice duramente – a Roma ed in Europa non esiste. Nessuno ci tutela e la politica non ci capisce. Vogliono distruggere questo nostro settore, ci impongono un fermo che nello Ionio è completamente sbagliato e dal 2030 ci vogliono far chiudere costringendoci a montare le telecamere a bordo». 

«Impossibile sopravvivere con la piccola pesca»

Per la “piccola” pesca le cose vanno peggio. Pietro Martilotti (un cugino di Francesco, ndr), solitamente “esce” alle 2 di notte e ritorna alle 19. Appare stremato dai «tempi difficili». Nell’elencare tutti i problemi non può non menzionare tutte le restrizioni che stanno cancellando il suo settore. «La pesca al bianchetto (la sardellina, ndr) l’hanno vietata, la pesca al tonno non si può fare, per quella al pesce spada bisogna avere la quota. Non ci resta che andare a merluzzi col “palancaio”, una lenza con 4000 ami, ma questo tipo di pesca non si può esercitare per un anno intero. Tra giugno e agosto lavoriamo bene, ma nei mesi restanti è dura sbarcare il lunario. Un tempo la pesca era ciclica: si iniziava col pesce spada, finito quel periodo si proseguiva col bianchetto e così riuscivamo a tirare avanti. Ma così, con queste regole è impossibile». 

«Il fermo biologico nello Ionio è sbagliato»

Anche Ignazio Gentile, presidente della Lega delle cooperative, già consigliere comunale di Corigliano, è critico nei confronti di chi dovrebbe tutelare il comparto ittico. «Il fermo biologico arriva in un momento sbagliato, il ministero non riesce a comprendere le problematiche che affliggono la pesca. Obbligare al fermo le imbarcazione nel mese di settembre è sbagliato, sarebbe meglio tra maggio e giugno. Lo scorso anno di questi tempi non siamo usciti per protesta contro il caro gasolio e quando abbiamo ripreso a pescare ne abbiamo raccolto i frutti».
Non mancano le ricadute negative sul mercato ittico. «Proseguire con questo fermo biologico a settembre ci obbliga a pescare le taglie minime che non sempre vengono apprezzate sui mercati. E così gli astatori preferiscono rallentare le battiture per arginare le perdite». 

«L’acquacultura? Siamo degli sconosciuti»

A Schiavonea c’è anche chi si dedica da anni e con grande passione anche all’acquacultura, nel caso specifico, delle spigole biologiche.
«Rappresento la quinta generazione di pescatori – spiega Arturo Bianco – e ho voluto diversificare la pesca rispetto ai miei avi. Dal 1999 gestisco 36 ettari di mare a largo di Thurio, ho studiato approfonditamente quell’habitat prima di impiantarvi le gabbie. Serviva un luogo adatto ad allevare la spigola naturale organico-biologica».
«Abbiamo allestito diverse gabbie con batimetrica (una branca dell'oceanografia che si occupa della misura delle profondità, ndr) orientativa di circa 50 metri di media: così il pesce ha sopra di sé una colonna d’acqua molto alta. Tra l’altro mi sono dotato di gabbie particolari, sommergibili, per evitare i furti. Le spigole – racconta ancora Bianco – risalgono a cibarsi col mangime e poi ritornano nella frescura, sotto i 30 metri».
Anche Arturo punta il dito contro il fermo biologico attuato nel periodo dell’anno peggiore e sui vulnus nella commercializzazione. «Noi a Schiavonea vantiamo un pescato eccezionale, anche dal punto di vista delle proprietà organolettiche, ma è venduto male. Esponiamo troppo pesce nelle cassette, con taglie diverse… evidentemente sta bene a chi compra ed a chi vende».

Se i pescatori si sentono abbandonati dal “sistema”, l’acquacultura per Arturo, letteralmente, «non esiste». «Ho scritto più volte al Ministero per sottoporre i problemi della pesca indiscriminata sotto costa, ma senza ricevere nessuna risposta. Meriteremmo maggiori attenzioni, perché solo qui a Schiavonea almeno 150 famiglie – conclude Arturo Bianco – lavorano nel comparto ittico».

Un comparto che, con tutto l’indotto, impiega miglia di persone che meriterebbero ben altra considerazione, anche in virtù di quell’arte – la pesca – che si tramanda di generazione in generazione ma che rischia di scomparire per sempre.
Con quale conseguenza? Abituare l’umanità a cibarsi di prodotto ittico pescato nei mari del Nord e congelato o allevato alla foce del Mekong o di qualunque altro grande fiume asiatico.
Da queste parti ancora nessuno riesce a comprendere perché la secolare pesca alla sardellina sia vietata dal regolamento dell’Unione europea, ma poi si possa mangiare il surrogato, quel pesce ghiaccio allevato nelle acque salmastre della Cina.