Il giovane professionista calabrese è stato travolto da un’inchiesta nella quale compariva «per poche parole dette da altri». Oggi, dopo l’assoluzione, racconta il prezzo pagato e la voglia di ricominciare: «Era tutto nelle carte che nessuno voleva leggere. Colpito perché sono calabrese? Non lo so ma di sicuro ci sono molti pregiudizi»
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Andrea Betrò, una laurea in Economia Internazionale, una specializzazione in Scienze Economico-Aziendali e un dottorato in diritto tributario, è un giovane professionista calabrese (di Pizzo) rimasto coinvolto in una brutta storia, per fortuna con un lieto fine. Ma si tratta di una vicenda giudiziaria che ha lasciato conseguenze gravi in una persona perbene. E come sappiamo dalle cronache, non è certamente la sola vicenda.
Andrea Betrò, finalmente la luce dopo una lunga notte. Come si sente?
«Mi sento sollevato, ma anche profondamente segnato. Dopo quasi due anni vissuti come bersaglio di una narrazione distorta e ingiusta, questa assoluzione rappresenta la vittoria della verità. Ma non cancella tutto ciò che ho subito: la diffamazione, la perdita di fiducia, l’umiliazione pubblica. È un sollievo, sì, ma anche un monito: non si può giocare con la dignità delle persone».
Ma come è potuto accadere che un giovane professionista serio e affidabile si ritrovi dalla sera alla mattina in un baratro?
«È accaduto perché nel nostro sistema mediatico e giudiziario, a volte, si preferisce costruire una narrazione invece che cercare la verità. Bastano due parole dette da altri — magari in contesti che non ti riguardano nemmeno — per finire sotto i riflettori. E da lì, l’effetto valanga è immediato. Si dimentica la presunzione d’innocenza, si costruisce un colpevole da esibire, e intanto si distrugge una vita».
Ma di cosa l’accusavano esattamente? E come si è arrivati al suo nome?
«Non c’era un’accusa fondata. Il mio nome è emerso soltanto perché alcune persone, durante intercettazioni che non mi riguardavano affatto, vantavano di avere rapporti con me e sostenevano che avrei potuto garantire coperture. È tutto falso, e lo dimostrano chiaramente le carte processuali: non ho mai fornito, né avrei potuto fornire, nessun tipo di protezione. È stato sufficiente che qualcuno mi citasse, peraltro mentendo, perché mi ritrovassi travolto.
Ed è proprio questo il punto: sarebbe bastato leggere con attenzione gli atti, ma forse erano “troppi” per essere letti a fondo. E così, mentre io cercavo di spiegare e documentare la mia estraneità, sono stato trattato come un colpevole».
Può aver influito il fatto di essere calabrese? I pregiudizi sulla Calabria esistono ancora.
«Non posso escluderlo. I pregiudizi sono ancora troppo radicati. Essere calabrese, per alcuni, equivale ad avere qualcosa da nascondere. È assurdo, ingiusto e profondamente discriminatorio. Ma so che quella parte dell’immaginario collettivo può aver alimentato sospetti infondati e semplificazioni mediatiche. E questo deve far riflettere».
L’assoluzione arriva dopo mesi di esposizione mediatica violenta. Un certo modo di fare informazione ha contribuito a gettare fango anche su persone innocenti.
«Sì, e posso portare un esempio concreto. Dopo aver dato la mia piena disponibilità a un giornalista per spiegare tutto, ho sostenuto un’intervista di un’ora, durante la quale ho documentato ogni parola con le carte alla mano. Eppure, quel lavoro è stato stravolto: tagliato, cucito e deformato per costruire una storia falsa, più “vendibile” ma completamente lontana dalla realtà. È questo il vero scandalo: la verità c’era, era disponibile, ma si è preferito ignorarla per fare spettacolo. E intanto, la mia reputazione veniva distrutta».
State valutando azioni legali contro alcune trasmissioni televisive?
«Non ho mai sporto denuncia penale contro nessun giornalista, e non lo farò. Credo nella libertà di stampa. Ma credo anche nella responsabilità delle parole. Per questo sto valutando con i miei legali la possibilità di agire in sede civile contro chi ha superato ogni limite, travisando i fatti e calpestando la mia dignità. Non si tratta di vendetta, ma di giustizia: è giusto che chi ha sbagliato ne risponda davanti a un giudice civile».
Purtroppo in Italia gli errori giudiziari sono tanti. E chi li subisce spesso non ha voce né forza per reagire.
«È verissimo. Io ho avuto la fortuna di avere accanto persone competenti, affetto, risorse per difendermi. Ma penso a chi non ce l’ha. A chi viene schiacciato da un meccanismo ingiusto e non riesce nemmeno a farsi ascoltare.
Per questo sento una responsabilità: raccontare la mia storia non solo per me, ma per chi non ha gli strumenti per farlo».
In tanti le sono stati vicini in questa storia
«Voglio ringraziare la mia famiglia, chi mi è stato accanto come la mia compagna e l’avvocato michele Andreano e tutto il suo studio per avermi difeso con lo spirito di chi avrebbe dovuto difendere se stesso».
Cosa è rimasto in lei, dopo tanta amarezza?
«Questa vicenda, pur con tutta la sua durezza, mi ha dato l’opportunità di fare una scelta: seguire ciò che davvero mi rende felice. Da sempre appassionato d’arte, ho trasformato questa passione nel mio nuovo lavoro. È il sogno di una vita che oggi, finalmente, si realizza».