Ferite incancellabili e fantasmi del presente. Parla la madre della 13enne stuprata dal branco

VIDEO | Ai nostri microfoni il dolore e il dramma della mamma della ragazzina di Melito Porto Salvo che avrebbe subito per anni violenze: «Nessuno non ci è mai venuto neanche a chiedere come stavamo». Intanto è in corso il processo a carico di sette imputati

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di Angela  Panzera
20 febbraio 2019
13:32

«Il dolore che ha subito mia figlia, tutto quello che le hanno fatto patire non può essere e non deve essere dimenticato; è un qualcosa che ti lacera dentro e che te lo porterai tutta la vita». È per questo motivo che la madre della giovane ragazzina di Melito Porto Salvo, presumibilmente abusata per anni dal “branco”, ha scelto di rompere il silenzio e raccontare alla nostra testata il calvario che lei, la sua famiglia, e soprattutto la sua bimba hanno dovuto attraversare in tutti questi anni. Oltre alle presunte violenze sessuali, perpetrate anche in gruppo sulla giovane la quale all’epoca aveva solo 13 anni, l’intero gruppo familiare si è dovuto scontrare con l’indifferenza e la sopportazione di un peso, di una spada di Damocle, alimentata dall’ onta, dalla vergogna, dalle maldicenze e soprattutto dalla sensazione di essere loro i colpevoli in una terra dove il “contrario” viene spacciato per normalità con lo scopo di sottrare alle proprie responsabilità, non solo gli imputati, ma anche un’ intera comunità.

L’inizio dell’incubo

Era il due settembre del 2016 quando i Carabinieri della Compagnia di Melito Porto Salvo, insieme a quelli del comando provinciale, eseguirono un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di sette giovani, tutti originari del comune dell’area grecanica della provincia reggina, accusati - a vario titolo- di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata aggravata, lesioni personali aggravate, atti persecutori e favoreggiamento personale. Solo per un altro indagato venne disposta la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. L’inchiesta, condotta dal procuratore aggiunto Gaetano Paci e dai pm Francesco Ponzetta e Massimo Baraldo, venne chiamata “Ricatto”, un nome che delineerebbe alla perfezione il vortice di ricatti e violenze, anche psicologiche, che la giovane sarebbe stata costretta a subire. Sì perché non solo per mesi doveva sottostare al loro volere sessuale, trattata come un oggetto senza diritti, ma era anche costretta a tacere altrimenti ci sarebbero state delle ritorsioni nei suoi confronti e in quella della sua famiglia. In manette finirono, Davide Schimizzi, il suo fidanzatino dell’epoca che- secondo la ricostruzione accusatoria - la diede “in pasto” ai suoi compari ossia Daniele Benedetto, Pasquale Principato, Michele Nucera, Lorenzo Tripodi, Antonio Verduci e Giovanni Iamonte. Quest’ultimo è figlio di Remingo, boss dell’omonima cosca, e quindi anche nipote del mammasantissima Natale Iamonte, i “padroni” di Melito e dintorni che nonostante le decine di arresti e i sequestri milionari si sentono ancora i padroni incontrastati del territorio. Il 2 settembre del 2016 segna una data di non ritorno per tutti, anche se l’odissea di questa famiglia, di questa donna, la madre della piccola, inizierà mesi prima quando la ragazzina riuscirà a confidarsi con lei e con il padre e raccontare loro l’orrore che ha dovuto subire.


In un tema l'orrore vissuto

«Sono stata io a trovare quel tema, scritto in classe, in cui mia figlia raccontava del suo dolore, dei suoi problemi. Era uno sfogo strano, molto strano. Lì per lì non capivo che cosa le stesse succedendo. Pensavo ad un normale periodo di crisi che tutti gli adolescenti attraversano e invece, stimolata dalle nostre domande, come un fiume in piena, confessò l’incubo che stava vivendo e mi sono sentita persa».

 

In un primo momento si era paventato anche uno scenario diverso ossia che, oltre alle presunte violenze sessuali, la ragazza fosse abbandonata e non vigilata adeguatamente dai genitori i quali erano alle prese con una brutta separazione. «Questa notizia non corrisponde a verità e ciò mi ha fatto molto male- continua- mi sono separata da mio marito molto tempo prima e anche se, ancora continuavamo a coabitare, quella era comunque una situazione già definita. Avevamo preso strade diverse, ma entrambi facevamo da genitori ai nostri figli, senza fargli mancare niente». Certo, perché si deve sempre trovare un motivo, anche se palesamene non valido, per giustificare il male perpetrato da altri. “Se l’è andata a cercare” dicono tutt’ora le menti piccole che preferiscono guardare il dito per non vedere la luna. In tutti i modi, anche durante il dibattimento, si è assistito al solito teatrino ipocrita: la colpa è della vittima e della sua famiglia che non sapeva quello che ragazza faceva oltre le mura domestiche. Ma la madre è onesta: non era a conoscenza che la minore si era invaghita di un ragazzo molto più grande di lei, Schimizzi. «Non sapevamo che mia figlia stesse frequentando questo ragazzo, altrimenti non l’avremmo permesso. Era troppa la differenza d’età e mai avremmo acconsentito a tale rapporto». Gli adolescenti si sa nascondono e omettono ai propri genitori i particolari e le circostanze che sanno benissimo di non poter palesare. Poi quando c’è l’amore di mezzo, il quadro si complica ancora di più; soltanto che quello non era amore, ma dominio, predominio. Schimizzi, per gli inquirenti, sarà quello che condurrà all’inferno quell’anima innocente e la “distribuirà” al branco. «Mi chiedo ogni giorno dove ho sbagliato, dove abbiamo sbagliato. È normale porsi queste domande, ci dice la madre che, assistita dall’avvocato Giuseppe Mazzetti, si è costituita parte civile nel processo. Mi hanno tolto la serenità e la parte più bella della vita di mia figlia. Da madre so cosa significa ogni giorno svegliarsi con quel pensiero atroce e addormentarsi con lo stesso pensiero. Ma la scelta di denunciare era l’unica da percorrere. Anche se è stato un cammino doloroso, abbiamo scelto di affidarci alla giustizia e continueremo a farlo».

Il processo

Il 21 dicembre scorso il Tribunale reggino, presieduto da Silvia Capone, condannerà ad otto anni e due mesi di carcere Giovanni Iamonte, il figlio del boss, mentre per Davide Schimizzi i giudici hanno stabilito una condanna a 9 anni, sei mesi e otto giorni di reclusione a fronte di una richiesta della Procura di 16 anni e mezzo. Pena severa anche per Antonio Verduci, sette anni, e per Lorenzo Tripodi, sei anni. Verranno assolti invece, Pasquale Principato e Daniele Benedetto. Dieci i mesi di prigione inflitti a Domenico Mario Pitasi che, però, non rispondeva di reati di tipo sessuale. Il collegio, però ha scarcerato tutti gli imputati tranne Iamonte e Schimizzi che invece dal carcere sono passati agli arresti domiciliari. Nessuno di loro né durante le indagini né durante il processo rivolgeranno mai un qualsiasi tipo di gesto alla giovane e alla sua famiglia. «Prima ero molto più arrabbiata, poi la rabbia- ci dice la madre- si è tramutata in indifferenza. Indifferenza non per quello che hanno fatto, perché il peso delle loro azioni ce lo porteremo dietro ogni giorno tutta la vita, ma per le loro persone. Io non li perdonerò mai per quello che hanno fatto. Non trovo una spiegazione, non capisco come dei ragazzi abbiano potuto compiere tali comportamenti. Dal mio cuore non uscirà mai il perdono per loro. Non si starà mai più bene, si cerca di andare avanti per i figli perché loro hanno bisogno di noi, si cerca di affrontare tutto , ma non potrò mai più dire “sto bene”. L’unica cosa che conta adesso è la serenità di mia figlia, una giovane straordinaria che, nonostante l’incubo che ha vissuto, ogni giorno ci dà la forza per sperare in un futuro migliore».

Il dramma nel dramma: «Noi abbandonati»

Il dramma, però di questa donna, di queste due donne, di questa famiglia, non si è circoscritto solo al processo. Ha avuto contorni più estesi, invisibili e sottili che per anni li hanno visti finire su un altare ingiusto. «Ci hanno marchiato a vita- racconta la madre- siamo noi quelli sbagliati. Hanno provato in tutti i modi a definire mia figlia come una ragazza facile, ma così non è e adesso è stato anche accertato da una sentenza di primo grado». Anche sulla sua persona hanno tentato di gettare discredito attraverso insinuazioni e cattiverie. Male su male. Le istituzioni, al di fuori della magistratura, in questa vicenda nei miei confronti sono state totalmente assenti. Al di là di qualche piccolo intervento e di qualche comunicato stampa di alcune associazioni, la madre si è dovuta interamente sobbarcare le spese economiche per la gestione dell’intera situazione, ma anche e soprattutto il carico morale che ne è derivato. «Siamo stati abbandonati, nessuno non ci è mai venuto neanche a chiedere come stavamo, come stava mia figlia perché comunità si è schierata con gli imputati». Il cognome Iamonte infatti, pesato molto. La società civile melitese, anche in questo caso, ha preferito allinearsi con la parte sbagliata, perdendo di fatto una grande opportunità di riscatto. Ma quanto ha “giocato” la ‘ndrangheta in questa storia? «Tanto- ci dice la madre - la mentalità sia omertosa che mafiosa ha avuto la loro parte. In molti sapevano e hanno taciuto. Ancora oggi siamo noi i colpevoli e questo io non lo posso permettere. Chi ha sbagliato deve pagare. Mia figlia merita di avere giustizia e noi saremo al suo fianco». Il passato ha lasciato ferite profonde, il presente è segnato da fantasmi e paure, ma questa famiglia piano piano sta scrivendo una nuova vita. Ci sarà un appello e probabilmente anche una Cassazione, ma al di fuori delle aule di giustizia adesso c’è un fiore che ha ripreso a sbocciare e che merita rispetto per il dolore subito sia oggi che domani.

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