Mafie al Nord

«È una Morabito di Cantù»: l’aristocrazia della ’Ndrangheta cambia casa. I clan si incontrano (e scontrano) a Milano

Il capoluogo lombardo sempre più crocevia di affari per le cosche calabresi. Le tensioni tra il gruppo vicino ai Piromalli e i Pesce e i chiarimenti con i Barbaro e i Mancuso in un bar a pochi passi da corso Buenos Aires

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di Pablo Petrasso
29 aprile 2024
18:29

Piromalli, Pesce, Morabito, Barbaro, Mancuso. L’aristocrazia della ’Ndrangheta si incontra (e si scontra) a Milano. Che si tratti di trovare un accordo sul business dei rifiuti o di risolvere screzi minimi per il pagamento di un elettrodomestico, nella capitale economica d’Italia si incrociano nomi che rimandano ai più importanti casati mafiosi calabresi. E appuntamenti in un bar di via Boscovich, una traversa di corso Buenos Aires, che uno dei gruppi al centro di una recente inchiesta della Dda di Milano, considerava adatto per perfezionare i propri affari e appianare le divergenze. Più che i fatti e gli eventuali sgarri contano i cognomi: più altisonanti (in senso mafioso) sono più è facile che il problema si risolva. Nella capitale economica d’Italia si pensa ai soldi, è più facile trovare un accordo che non disturbi gli affari.

Il risentimento per un uomo del clan Pesce

I rapporti del gruppo legato ai Piromalli (e guidato da Salvatore Giacobbe) con il clan Pesce non sono facili. Uno degli indagati, Giovanni Caridi, secondo i pm, «nutriva un particolare risentimento» nei confronti di un uomo considerato vicino alla cosca di Rosarno. Si tratta di un 36enne contro precedenti per traffico illecito di rifiuti. Caridi avrebbe avuto intenzione di incontrare questa persona «per regolare i conti con lui». Le sue parole captate dagli inquirenti sarebbero una spia della «cultura mafiosa degli esponenti del gruppo Giacobbe che si lasciano andare anche a considerazioni in ordine all’onore stesso della famiglia Pesce, leso appunto da uno dei suoi esponenti con tanto di riferimento a ruoli e investiture di doti che avrebbero dovuto costituire a loro dire una garanzia di onorabilità, non sempre rispettata dai giovani».


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Il business (in questo caso) della discordia avrebbe visto in effetti una presunta collaborazione criminale tra Caridi e la persona legata ai Pesce: entrambi sono stati arrestati nel maggio 2020 in un’inchiesta su un traffico illecito di rifiuti. Quell’affare evidentemente non è andato bene: «Lui – dice Caridi – non deve più mettere le mani nei rifiuti. Appena mette le mani nei rifiuti gli faccio vedere cosa succede. Poi può essere Pesce, pesciolino, pesciolone. Perché appena tocca i rifiuti deve pagare quelli e gli altri». Caridi, in realtà, ritiene che nella famiglia del suo “nemico” ci siano «dei grandi “cristiani”». Il problema sono i giovani, si comportano male: «Ricordati ‘ste parole che ti sto dicendo adesso: che il piombo buca tutti… ascolta… buca a Mammasantissima e al picciotto più piccolo che c’è… ci siamo? E ricordati che i vecchi non ci sono per sempre… quando uno i nodi se li lega, prima o poi li slega». Quella di Caridi è un piccola lezione su come vanno le cose in certi ambienti. «Calabrese è calabrese, è una mentalità strana, aspetta anche trent’anni… aspetta».

«Hai visto che è una Morabito di Cantù?»

Il capo Salvatore Giacobbe nutre «massimo rispetto e timore reverenziale» nei confronti degli esponenti del clan Morabito di Africo. A Milano c’è un gruppo legato alla ’ndrina dello storico boss Tiradritto. Giacobbe e i suoi sodali lo scoprono mentre si cercano di recuperare il denaro evaporato per via di alcuni assegni scoperti. Cercano un accordo con l’uomo che li ha beffati e i toni sono inizialmente improntati a «violente istanze punitive», per dirla con i magistrati. «Deve essere pestato al momento opportuno», spiega Giacobbe al solito Giovanni Caridi. Che ci pensa un attimo e risponde: «Ma lo sapete i parenti suoi a chi sono affiliati? Ai Morabito! Sua moglie… la sua ex compagna… è una loro nipote». Giacobbe propone subito una soluzione: «Ma se è una di loro, ci rivolgiamo a uno di loro e la chiamano, capito? Ma lo dobbiamo sapere sicuro prima che chiami». L’ex compagno della parente dei Morabito, secondo quanto risulta dalle intercettazioni, è uno a cui piace rischiare: avrebbe rubato dei soldi anche ad altri parenti della famiglia originaria della Locride che «lo stanno cercando». I Giacobbe, dopo aver cercato informazioni, trovano conferma della parentela: «Hai visto che è una Morabito? Di Cantù!», dice Caridi. Non di Africo: anche questo dà il senso del trasferimento geografico (e di interessi economici) per i clan storici della ’ndrangheta.

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L’incontro con i Palamara per sistemare una truffa

Da un clan di Africo all’altro, anche questo ormai con radici ben salde a Milano e nell’hinterland. Il racconto si dipana sempre dalle intercettazioni che mettono nel mirino Giacobbe e i suoi. Gli inquirenti, in questo caso, registrano «la fibrillazione sorte nel gruppo per una richiesta di incontro proveniente da un esponente di spicco di una famiglia di compaesani». Si tratterebbe di Francesco Palamara, 41 anni, «condannato per associazione mafiosa». L’incontro sarebbe stato propiziato da un intermediario «che, peraltro, in quel periodo si trovata in regime di semilibertà». Per quanto cambi il contesto, il motivo dell’incontro è uno sgarro che uno dei membri del gruppo Giacobbe «aveva (forse inconsapevolmente) fatto a un esponente della cosca Palamara, nell’ambito delle sue truffe nel settore delle auto a noleggio». Più che il fatto in sé, sono significative per i magistrati antimafia le intercettazioni perché «significative della cultura mafiosa intrisa nel gruppo, perché continuamente si evocano concetti quali il rispetto dei ruoli e delle gerarchie mafiose (per cui i capi parlano con i capi) e l’intangibilità dei componenti delle altre “famiglie calabresi”». Le identità non vengono quasi mai rese esplicite («Peppe con la “B” inizia il cognome, i suoi nipoti con la “C”»), si ricostruiscono le relazioni in base ai periodi comuni trascorsi in carcere. E grazie alle amicizie tra calabresi si cerca di rimettere a posto gli affari andati male. L’incontro con Palamara avviene nell’aprile 2019 nel solito bar usato dai Giacobbe per sbrigare le loro faccende. Sorrisi e saluti rasserenano il finale di una storia tesa.

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L’ambasciata per un parente dei Barbaro a Pavia

Ci sono anche i Barbaro nell’agenda telefonica della gang milanese legata alla cosca Piromalli. In particolare un 32enne che - appuntano gli investigatori - «risulterebbe affiliato alla cosca Barbano “U Castanu”» di Platì. Con lui Salvatore Giacobbe discute «di indirizzare una “ambasciata” a una terza persona non specificata che non gli rispondeva e che evidentemente, facendo parte della sua cosca, solo tramite lui poteva raggiungere, cosa che imbarazzava il suo interlocutore pronto anche a scusarsi per il comportamento dell’altro».

«Il signorino non si è fatto né vivo né morto», dice Giacobbe infastidito. Mentre il suo contatto dei Barbaro si mette a disposizione per rintracciare la «terza persona» e incontra l’uomo vicino ai Piromalli in provincia di Pavia, a Casorate Primo. Il malcontento è legato, come al solito, a questioni di soldi. Dopo lo sfogo, Giacobbe manda «i propri saluti agli altri membri della cosca». Il rispetto non cambia con la latitudine.

Il genero del boss Mancuso che gestiva il bar vicino al Tribunale di Milano

E di rispetto si parla anche in un passaggio che vede Giacobbe interagire con un pezzo della famiglia Mancuso di Limbadi. Stesso canovaccio: lo spunto è piccola cosa, una cucina acquistata e non pagata. Il “colpevole” dello sgarro viene convocato per risolvere la questione ma non si presenta solo. Così gli iniziali propositi bellicosi («lo tiriamo dai piedi») cedono il passo a più miti consigli. L’uomo arriva nel solito bar in via Boscovich assieme a Luigi Aquilano, genero di “Zu ‘Ntoni” Mancuso, ritenuto uno dei vertici della cosca di Limbadi. Salvatore Giacobbe ha parole chiare per spiegare al figlio che la situazione è cambiata: «Non è venuto pinco pallino, Angelo… noi non siamo neanche pinco pallino ma chi è venuto forse non hai idea, ok?». Aggiunge poi che «la persona è il genero in ‘Ntoni, di quello “là sotto” che ha un bar di fronte al Tribunale». Luigi Aquilano, in effetti, non è soltanto il genero di uno dei boss di Limbadi. Il 46enne gestiva un bar vicino al Palazzo di giustizia ed è stato condannato in abbreviato a 12 anni di reclusione. Una condanna che non ha tuttavia riconosciuto l’associazione mafiosa. Secondo il gup che ha disposto la pena per l’estorsione a un imprenditore, Aquilano - nonostante le proprie parentele - agiva nel capoluogo lombardo senza concordare i propri affari con le cosche calabresi e senza chiedere autorizzazioni. Durante le indagini era tra l'altro emerso che, grazie alla posizione privilegiata del bar nei pressi del Tribunale, Aquilano e la moglie avrebbero cercato di carpire informazioni sui vari magistrati che lo frequentavano, ricavano i nominativi dai ticket restaurant e poi cercando su Internet le loro storie professionali.

Quel bar, secondo i magistrati milanesi, sarebbe stato acquistato nel 2018 da una società di Aquilano e rivenduto nel dicembre 2020. Da un’intercettazione del gennaio 2019 è emerso come la moglie di Aquilano, «approfittando delle generalità riportate sui ticket» dei buoni pasto «avesse consultato fonti aperte per informarsi sulla storia e sulla carriera professionale dei magistrati che sono habituè del loro bar». E diceva: «Guarda oggi ho preso i ticket di tutti i nomi dei giudici quelli che vengono e mi sono andata a leggere le storie (…) la bionda invece ha fatto processi importanti… e poi uno che è venuto stamattina… praticamente sono andata a vedere… sai in quale processo faceva parte? In quello Why Not! (…) siamo proprio circondati!». 

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