Elogio dell’imbecille, nuova edizione aggiornata del primo libro di Pino Aprile

È un'illusione ottica quella che ci porta a considerare un genio tale a 360 gradi, mentre tutti hanno i propri lati imbecilliti. Insomma, fatto pur salvo quello che riusciamo a fare di buono, ognuno di noi è cretino a modo suo

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di Redazione
8 febbraio 2022
13:46
Pino Aprile
Pino Aprile

*di Pino Aprile

Perché “Elogio dell'imbecille”? La stupidità è la dote più diffusa, ampiamente maggioritaria nella nostra specie, che si distingue per la sua intelligenza. In Elogio dell'imbecille per questo è denigrata, ritenuta ostacolo e antagonista di quel che fa di noi il meglio del pianeta. In realtà, darwinianamente, l'imbecillità merita analisi meno superficiali, perché, se fosse dote deleteria per l'homo sapiens, un vicolo cieco nel suo percorso evolutivo, saremmo nella galleria dei parenti estinti, come la serie di australopitechi e ominidi che “non ce l'hanno fatta” a diventare intelligenti come noi; o l'evoluzione avrebbe scartato la stupidità lungo la sua strada, come avvenuto per altre doti temporanee poi rivelatesi inutili o dannose, dalla coda ai peli su tutto il corpo.

Se c'è e dilaga, la ragione è che a qualcosa serve e potrebbe sorprenderci scoprire quanto. Una considerazione che si aggiunge al dubbio sulla nostra intelligenza, ormai insufficiente a competere con quella artificiale (ma questa è un'altra storia).


Con “Elogio dell'imbecille”, che fu il mio primo libro e viene ora rieditato in versione aggiornata da libreria Pienogiorno, si cerca di capire il perché di questa dote. E se ne individuano le leggi. Eccone alcune: “Nella selezione naturale e culturale della specie prevale il peggio, se il peggio è più utile”; “Il cretino vive, il genio muore” (pensate al legionario romano che uccide Archimede); “Meglio scemi che morti” (il fine dell'evoluzione è la moltiplicazione della vita, non del genio); “L'uomo moderno vive per rincretinire” (l'intelligenza è uno strumento per risolvere problemi, ma più ci dotiamo di soluzioni preconfezionate, meno la usiamo e, come gli animali addomesticati, la dismettiamo, con una moria di neuroni che è stata misurata); “L'intelligenza opera a beneficio della stupidità e ne alimenta l'espansione” (pure il più stupido si riscalda al fuoco che un audace di genio seppe accendere); pertanto, “L'imbecillità può solo aumentare”; e questo anche a causa del fatto che l'homo sapiens è un animale sociale, vive in comunità, ma: “Quando gli uomini si mettono insieme, diventano sempre più scemi” (è la regola della carovana: i 99 cammelli più veloci del deserto vanno al passo dell'unico zoppo. E questa è la norma che governa le gerarchie, le burocrazie).
Alla riedizione, a parte gli aggiornamenti, ho aggiunto un capitolo che, partendo dalla invenzione della scrittura, arriva all'orgia comunicativa di oggi sul web, dove la quantità di quanto viene detto è direttamente proporzionale alla caduta della qualità dei contenuti e non contano il cosa, il come e il chi, ma esserci.

L'imbecillità è l'archivio del genio della specie: l'intelligente scopre la soluzione e la rende replicabile “alla portata di un idiota” (il che vuol dire aver creato un utensile, che può essere un oggetto, un comportamento, una organizzazione. Sapete come funziona il telefonino? Non so voi, io no, ma lo usiamo. Sapete produrre un fiammifero? Io no); gli stupidi conservano e tramandano la soluzione-utensile e non di rado, eliminano anche l'inventore (quante città, come la mia Taranto, hanno la leggenda della popolazione che uccide o acceca l'ingegnere che progettò l'ardito ponte che scavalcò il burrone, il vorticoso fiume, il tratto di mare infido?). C'è di più: l'imbecillità è l'ambiente ecologico che consente l'espressione del genio.

Provo a raccontarlo con una metafora che non è mia, ma rubata a Padre Brown: avete mai visto un ricamo? Alcuni sono belle repliche, ripetitive, grazie a buona tecnica, di opere originali. Quindi: buon artigianato. Altri sono vere e proprie opere d'arte, anche per l'uso di metodi innovativi.
E avete mai girato il ricamo, dalla parte opposta? Un groviglio inestricabile di fili, una matassa disordinata che non corrisponde in nulla al disegno, all'armonia della parte bella. Sembra incredibile che quel caos sia la scaturigine di un tale ordine, sfumature di colori che evolvono gli uni negli altri, costrutto di una figura, una scena, a volte un vero e proprio racconto (in fondo, è quello che avviene nell'universo, nato dal caos e, per aggregazioni e regole energetiche susseguenti, fucina di stelle, galassie, pianeti e vita in tutte le sue forme).

Come è possibile questo? Diciamo che la parte bella del ricamo sono gli intelligenti della specie, la parte caotica, aggrovigliata, gli imbecilli. Ne viene che intanto il genio può il ricamo, in quanto la stupidità garantisce l'inestricabile e incomprensibile matassa che regge quell'ordine. Per scendere nel dettaglio: la perfezione del ricamo è dovuta al fatto che ogni filo sta dove sta, senza alcuna partecipazione attiva al progetto finale. Non fa e non sa: sta; quell'intrico di fili volge le spalle al disegno, non lo vede, ne ignora persino l'esistenza, ma la consente. Immaginiamo il ricamo come la descrizione delle società umane: l'ordine e la tenuta della comunità sono concepiti dagli autori del disegno (nel caso specifico, nulla garantisce siano i più intelligenti, diciamo: sono semplicemente quelli che hanno un progetto; anche Hitler ne aveva uno), ma solo la stupida, inconsapevole partecipazione di una matassa confusa ed enorme di imbecilli regge il costrutto sociale e quell'idea di come stare insieme.

Può destare un oooh! di ammirazione quell'unico punto del ricamo che dà un occhio rosso alla pernice blu, ma il filo rosso che s'interseca con tanti altri, per un solo punto, non lo sa. Suo compito è stare lì, essere un punto. La parcellizzazione degli incarichi è tanto più efficiente quanto più questi sono banali, alla portata di chiunque. Ma più minuscolo il compito, più stupido l'esecutore, tanto più l'impegno assegnatogli diviene inamovibile, baluardo di un potere che proprio dall'insignificanza del che fare trae la sua forza: ce n'è così poco da perdere, che perso quel quasi niente, perso tutto, il che ne amplifica la rivendicazione e la difesa. Mettete un cappello da capo-palazzo a un cretino e sarà il regno del terrore. Questo vale anche nel bene, ma nel male si vede più chiaramente.

Chi ha visto il film “The reader” o letto il libro da cui è tratto, ha un esempio della sproporzione cui può giungere la distanza fra l'entità del compito affidato a dei minus habens e il potere che può derivarne. La storia narra di alcune donnette cui, durante il Terzo Reich, diedero l'incarico di controllare ognuna dieci operaie di una fabbrica di guerra nazista attigua a un campo di sterminio. Ma c'era un problema: la macchina del terrore continuava a mandare nuove operaie-schiave. «E non c'era posto per tutti. Ci avevano detto: 10!», protestarono, nel processo dopo la guerra, le ottuse sorveglianti. E, «per fare posto» alle nuove in arrivo, ognuna di loro selezionava quelle «in più» e le mandava nel lager annesso, perché fossero eliminate. Il nazismo aveva dato un compito banalissimo a persone incapaci di quasi tutto, e quel nulla era diventato la porta dell'inferno. La condanna più pesante fu inferta a una sorvegliante che, pur di non confessare di essere analfabeta, si attribuì la stesura del documento che determinò, quale prova-regina, la sentenza.

Nessuna di quelle donne di scarsissimo spessore culturale, morale e umano contava nulla nel disegno criminale del nazismo, ma quella stagione di potere e terrore riuscì a radicarsi e stendersi su tutta l'Europa, perché tanti “fili ignari” ne sostennero la trama, ognuno pensando di aver fatto solo il quasi niente che era loro stato chiesto. Il filo fa il disegno (l'assenza o l'inefficienza di uno solo compromette l'intero costrutto con la sua imperfezione), ma non lo conosce, non lo capisce, perché troppo ampio per rientrare nel ristretto suo orizzonte, dove sta, affidandosi e non sapendo.

La somma di tante cose stupide, unite nel progetto di pochi, ci ha portato sulla Luna e ora su Marte e da lì alla colonizzazione del cosmo.
Gli imbecilli sono i mattoni per costruire, nel bene e nel male, imperi e futuro: insostituibili e denigrati. Il che accade per eccesso di sintesi: genio/stupido. Non è così: ci sono molte forme di intelligenza e, per simmetria, almeno altrettanto di stupidità. È un'illusione ottica quella che ci porta a considerare un genio tale a 360 gradi, mentre tutti hanno i propri lati imbecilliti (anche Einstein si dette del cretino, a proposito di alcuni sviluppi delle sue equazioni che altri intravidero e lui non capì, nemmeno quando glieli inviarono). Insomma, fatto pur salvo quello che riusciamo a fare di buono, ognuno di noi è cretino a modo suo.
Cominciai questo studio, piegato dalla scoperta dei miei comportamenti stupidi, che non riuscivo a controllare nemmeno con la volontà (che pure non è la mia dote più scarsa). Scrivendo questo libro (dopo averne parlato con il premio Nobel Konrad Lorenz, creatore dell'etologia, a casa sua, ad Alternberg, sul Danubio: «Lei non ha idea su cosa ha messo le mani», mi disse. Quella intervista, con il titolo “E Dio creò lo stupido”, girò il mondo) feci pace con il mio lato scemo, ma non ritengo di aver ancora imparato ad accettarlo, solo a conviverci, sapendo che quella matassa dall'altra parte che non capisco e mi descrive, sono sempre io.

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