Dietro al clamoroso “niet” della Cirenaica alla missione europea con il ministro dell’Interno, Malta e Grecia non c’è la geopolitica. Tutt’altro
Tutti gli articoli di Italia Mondo
PHOTO
Non è stato un imprevisto, né un incidente diplomatico. Quello che è successo a Bengasi, dove l’Italia e i suoi partner europei sono stati respinti come turisti sgraditi alla dogana di uno staterello irritabile, è il risultato di una scelta precisa. E il motivo, per una volta, è tanto semplice quanto inequivocabile: nessuno ha voluto pagare.
Altro che vendetta politica, frizioni tribali o nervosismi istituzionali. A Saddam Haftar – figlio del più noto Khalifa, il generale con aspirazioni presidenziali e legami ambigui con Mosca – non interessano strette di mano, dichiarazioni di intenti o foto ufficiali. Haftar junior voleva una cosa sola: soldi.
Nel dettaglio, voleva lo stesso trattamento che Roma riserva da anni al governo di Tripoli. Cioè milioni di euro in cambio della cortesia di trattenere migranti in centri di detenzione poco raccontabili, impedendo loro di salpare. A Tripoli va bene così, e l’Italia ha già firmato più di un assegno. Ma in Cirenaica – che è un altro mondo, retto da un altro potere, e da un’altra idea di controllo – quel denaro non arriva.
Così l’Aise, guidata da Giovanni Caravelli, ha messo in moto la diplomazia parallela. Con Haftar junior i contatti sono ottimi, tanto che lo si è portato in Italia per un piccolo gran tour nei palazzi romani: Viminale, Esteri, Difesa. Ha incontrato Piantedosi, Tajani, Crosetto. Ha ascoltato, promesso, chiesto. Il suo messaggio era chiarissimo: noi possiamo trattenere i migranti, ma serve il vostro aiuto. Tradotto: volete che non partano? Pagate.
A Roma hanno pensato: chiediamolo anche a Grecia e Malta. Dopotutto, anche loro hanno interesse a fermare le partenze dal quadrante libico. Ma da Atene è arrivato un secco «no grazie». E da La Valletta un «vedetevela voi». A quel punto il patto salta. E con lui anche la missione.
Così, quando Piantedosi e colleghi atterrano a Bengasi, si trovano davanti il più classico dei trappoloni. Nessun benvenuto, nessuna foto, nessun incontro. Al contrario: porte chiuse, e l’ultimatum non negoziabile. O si riconosce pubblicamente la legittimità del governo della Cirenaica – partecipando a una foto con i ministri locali – oppure si torna indietro. Un aut aut irricevibile per chi, come l’Unione Europea, riconosce ufficialmente solo Tripoli.
La delegazione fa marcia indietro. Piantedosi si imbarca, con un bel due di picche in tasca e un’altra gaffe internazionale nel curriculum. Ma il vero pasticcio esplode al rientro, quando si cerca di capire chi abbia permesso questo fallimento annunciato.
Nel mirino finisce subito Nicola Orlando, ambasciatore Ue in Libia. Troppo vicino a Tripoli, dicono alcuni. Troppo freddo con Bengasi, dicono altri. Fatto sta che Haftar lo considera un interlocutore ostile, e ogni trattativa che passi da lui è destinata a fallire. Il problema è che nessuno, né a Bruxelles né a Roma, ha avuto il coraggio di prendere in mano il dossier libico con un approccio realistico.
In pubblico, tutti fingono che esista una sola Libia. In privato, sanno benissimo che ne esistono due. E che una delle due – la Cirenaica – è oggi la principale piattaforma di partenza dei migranti. Se davvero si vuole fermare il flusso, lì bisogna trattare. Ma trattare significa anche pagare.
E allora eccoci qui. Con una missione ridicolizzata, un asse europeo spaccato e un generale libico che detta le condizioni. Mentre a Palazzo Chigi si sprecano le mezze frasi su «strategie multilivello» e «coordinamenti strutturati», la realtà è brutale: Saddam Haftar ha presentato il conto. E l’Europa l’ha rifiutato.
Solo che in Libia, quando non paghi, non ti respingono con una raccomandata. Ti lasciano sull’asfalto, a farti fotografare da lontano mentre torni indietro come un rappresentante della Folletto respinto da un cliente scontento. Altro che errore logistico. Questo è stato un messaggio. Un cartello appeso in arabo e italiano davanti alla Cirenaica: niente soldi, niente collaborazione. E se a Bruxelles ancora non hanno capito, Haftar è pronto a rispedire al mittente anche il prossimo aereo.