Coronavirus: la storia di Antonio, un calabrese in trincea nel cuore della pandemia

Da 17 anni l'infermiere tortorese Maceri presta servizio nelle strutture sanitarie del Nord. Attualmente lavora all'ospedale di Sesto San Giovanni, ma non ha mai tagliato il cordone ombelicale con la sua terra

di Francesca  Lagatta
22 aprile 2020
17:36
Antonio Maceri
Antonio Maceri

Si chiama Antonio Maceri, ha 40 anni, e da 17 lavora nei reparti di Rianimazione degli ospedali del Nord. Attualmente è in servizio nell'ospedale di Sesto San Giovanni, a pochi chilometri da Milano, in Lombardia, la regione italiana più colpita dalla pandemia in termini di contagi e di decessi.

È uno dei tanti angeli in corsia a cui in questi giorni sono affidate le sorti della nazione e, come tanti suoi colleghi, nelle sue vene scorre sangue del Sud. Antonio, infatti, è nato e cresciuto a Tortora, la cittadina calabrese che segna il confine con la Basilicata, fino alla sua giovinezza. Dopo la laurea è partito alla volta del Nord e, a parte un breve ritorno a casa, è rimasto lì, dove oggi vive ed esercita la sua professione con orgoglio e forte senso del dovere, nonostante la stanchezza e l'angoscia che hanno accompagnato le ultime settimane.


«Ho avuto tanta paura»

Antonio ha avuto paura e lo ammette candidamente. Quello della Terapia intensiva è un reparto dove si lotta spesso tra la vita e la morte, «ma quando è scoppiata la pandemia non eravamo abituati al carico di lavoro. Abbiamo dovuto imparare in fretta a gestire una patologia di cui fino a poco prima non sapevamo niente. Abbiamo visto che il virus aggrediva i polmoni, ma anche gli altri organi, abbiamo capito subito che la situazione non sarebbe stata facile».

Alla fatica dei doppi turni si è aggiunto anche il dispiacere per i colleghi che si ammalavano e i pazienti che si aggravavano o soffrivano per la lontananza da casa. «La cosa più difficile è il distacco, quando i famigliari e i pazienti devono salutarsi sapendo che, nonostante la grave situazione, non potranno vedersi per un bel po'».

«Noi infermieri il tramite tra i pazienti e le famiglie»

In situazioni come queste, tutto quel dolore ti penetra nella pelle e ti scava dentro. Puoi avere tutta l'esperienza del mondo, puoi aver visto morire centinaia di persone, ma non potrai mai abituarti agli occhi di un uomo indifeso che chiede aiuto. 
«Così abbiamo aiutato i pazienti a fare le video chiamate con i nostri cellulari, vedevano che il contatto visivo con i famigliari li faceva stare meglio. A un certo punto, io e i miei colleghi abbiamo raccolto dei soldi e abbiamo acquistato un i-Pad. Lo abbiamo donato al reparto proprio per favorire le video chiamate con i parenti che non potevano avvicinarsi ai loro cari mentre stavano lottando contro il mostro».

Ambulanze in fila con i malati

«In tanti anni di lavoro non avevo mai visto qualcosa del genere». Il ricordo dei primi giorni di emergenza sanitaria è ancora vivo e mentre lo rievoca, la voce di Antonio trema dall'emozione. 

«Abbiamo visto le ambulanze in fila nel piazzale dell'ospedale. Dentro c'erano i pazienti in attesa di essere visitati e ricoverati. Non sapevamo cosa avremmo dovuto aspettarci e cosa sarebbe accaduto. Ho visto con i miei occhi cosa significhi avere fame d'aria. È stato terribile».

«Le cose stanno migliorando»

In Lombardia la lista dei contagi aumenta e, purtroppo, anche quella dei decessi. Ma da qualche giorno la situazione sta diventando meno drammatica, tanto che interi reparti di terapia intensiva si sono svuotati e sono stati chiusi. «Abbiamo visto morire tanta gente, abbiamo lavorato con la paura di essere contagiati, non è stato semplice, ma abbiamo dato tutto, senza riserve. Oggi sappiamo molto di più del virus e l'approccio con la patologia è migliorato. Io, poi, ho lavorato in una squadra meravigliosa fatta di colleghi che come me vivono questo mestiere come una missione. Sono orgoglioso di aver contribuito ad aver salvato tante persone».

«A Milano sono stato accolto come un figlio»

Mentre in queste ore si riaccende l'insulso dibattito sul presunto divario tra Nord e Sud ad opera di qualche buontempone, l'infermiere tortorese spiega invece di essere stato accolto a Milano «come un figlio». «La Lombardia è una regione accogliente, miei colleghi sono adorabili e ci frequentiamo anche dopo il lavoro. Certi pregiudizi sono superati e non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolinearlo. D'altronde il pensiero di un solo uomo o di pochi non può rappresentare quello di milioni di persone».

«Della Calabria mi manca il mare»

La sua vita ormai è lì, Antonio vive stabilmente a Milano, a pochi chilometri dalla sorella e dalla nipotina, ma non ha mai tagliato il cordone che lo lega al suo paese Natale. «A Tortora ci vivono i miei genitori, ci torno almeno due volte all'anno, e poi le mie vacanze devo trascorrerle necessariamente in Calabria. Casa mia era pochi metri dalla spiaggia, il mare mi manca tanto, solo chi è nato lì può capire questo legame profondo».

E nonostante i mille chilometri di distanza, continua a mantenere solide le amicizie di un tempo. «Appena posso, passo del tempo con i miei vecchi amici, con i quali mi sento spesso».

Il progetto delle vacanze gratis agli operatori sanitari

Tra le sue vecchie conoscenze, ci sono certamente gli imprenditori Biagio Praino e Fabio Macrì. Da qualche ora i loro nomi circolano su internet perché legati al progetto delle vacanza gratis a Praia e Tortora per gli operatori sanitari anticovid. È stata proprio una telefonata con l'amico Antonio a convincerli che gli angeli delle corsie, come li ha ribattezzati la stampa, meritano segnali di gratitudine e di incoraggiamento. Per chi sta lottando contro il mostro, anche il più piccolo gesto di solidarietà scalda il cuore. 

«La gente ci è stata molto vicino – dice Antonio – e ci ha dato la forza di andare avanti. Non potrò mai dimenticare quelle mattine quando, recandoci in ospedale, abbiamo trovato degli striscioni appesi al cancello in cui ci si ringraziava per quello che stavamo facendo. È stata un'emozione unica».

 

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