LONG FORM

Non-finito, sfregio di una Calabria lasciata a metà

Il nonfinito, sfregio di una Calabria lasciata a metà
di Vincenzo Imperitura
Coordinamento editoriale: Altomonte, De Girolamo, Rende, Serra
Video editing: Vallone

Mattoni a vista, pilastri irti di tondini di ferro, tetti senza mura da proteggere. Gli scheletri edilizi sono ormai uno dei segni identitari più deleteri di questa regione, testimonianza di sprechi e disprezzo delle regole. Dall’appartamento per i figli tirato su in una notte e mai terminato, alle opere pubbliche più improbabili, come un ippodromo alle porte dell’Aspromonte. Le foto di Angelo Maggio, autore di Cemento amato, e una tesi di laurea sull’argomento sono il filo conduttore di questo viaggio

Un pilastro isolato su una collina vergine, un solaio a vista tra palazzine ordinate, il buco di una finestra vuota tra i vasi con i gerani e con i peperoncini: ferite aperte sul territorio che sono diventate ormai parte integrante del territorio stesso, specchi deformati di un benessere solo sfiorato, e rimasti come monito storpio di quello che poteva essere e non è stato.
Il nonfinito – di certo lo stile architettonico più caratterizzante degli ultimi 70 anni in regione – rappresenta una peculiarità tutta calabrese costruita, letteralmente, mattone su mattone, pilastro su pilastro, in una gara senza senso che ha finito col trasformare i nostri paesi e le nostre città – soprattutto sulle coste – in sgangherati simulacri di speranza insensata. L’appartamento per il ritorno del figlio che studia fuori, la palazzina per riunire la famiglia sotto lo stesso tetto, il solaio lasciato “aperto” nella falsa illusione di poterlo completare col tempo: un “Cemento Amato” di natura privata che ha trasformato intere aeree della regione in cantieri mai chiusi, con vento e salsedine a corrodere quello che resta del sogno di uno sviluppo mai divenuto concreto. Un fenomeno di diffuso malcostume che «segna l’onda lunga dei fenomeni di disgregazione sociale ed economica che vi trovano origine».
I palazzi non finiti sono come ordigni inesplosi disseminati sul territorio
Alessia Rubino, giovane catanzarese che sul nonfinito calabrese ha costruito la sua laurea specialistica in arti visive, ha studiato il fenomeno in profondità: «Oggi, trascorsi intensi anni di costruzione anarchica del suolo calabrese – scrive – il suo edificato informale più recente ci parla della ricerca del benessere di persone che, raggiunto un certo status economico a costo della disgregazione del nucleo familiare, hanno voluto ricostruirlo fisicamente in una casa a più piani, da destinare alle generazioni a venire». E così, gli scheletri dei palazzi rimasti nudi, «disseminati sul territorio come ordigni inesplosi», hanno modificato per sempre la geografia del territorio. Una trasformazione lenta ma inesorabile, avvenuta con il silenzio e la complicità degli stessi calabresi e delle loro istituzioni, che a quei monumenti alle aspettative deluse si sono ormai assuefatti.
Un fenomeno iniziato con il boom economico degli anni 50 e che ha registrato una spaventosa accelerazione a cavallo tra ’70 e ’80: «Una tempesta di soldi, per tutti gli anni ottanta dal cielo piovvero lire – scrive lo scrittore di Africo Gioacchino Criaco in un piccolo saggio che considera il nonfinito calabrese come ambiente sospeso tra speranza e tradimento – ne vennero giù così tanti che un po’ arrivarono anche giù. Bagnarono la Calabria e il denaro convinse i calabresi che ormai era fatta: avrebbero avuto un posto tra i ricchi e lo avrebbero avuto per sempre. Si costruiva sulla speranza che i soldi non sarebbero mai finiti, quindi si costruiva sul sogno e sull’ambizione. Più si ambiva, più si sfaceva e più si impastava cemento».
Si ambì tanto e si impastò tanto. Sul più bello i soldi finirono, quando ancora di finito non c’era nulla

Gioacchino Criaco
E così, passata la sbornia edilizia, condita da speculazioni, prepotenze e incuranza verso il prossimo e verso se stessi, quello che è rimasto sul territorio è una colata di cemento disordinata e pericolosa. Un maelstrom di mattoni nudi e tondelli a vista che ha colonizzato senza ostacoli paesi, colline e arenili, diventando esso stesso paesaggio. Tanto da essere accettato dalle persone che quel paesaggio lo vivono tutti i giorni.

Cemento amato, il nonfinito calabrese negli scatti di Maggio

Angelo Maggio è un fotografo etnografico. Da anni, reflex in mano, batte la Calabria del non finito. Un’esperienza iniziata per caso e divenuta poi oggetto di studio e riflessione: «Nel 2004 ero stato coinvolto in un lavoro di ricerca sulla settimana santa di San Luca – dice Maggio – Tra le foto c’era quella di un Cristo issato, con alle spalle un fabbricato non finito: trovavo questa foto molto tragica ed ero molto titubante sull’inserirla nel libro. Quando mostrai ai cittadini di San Luca l’immagine, loro però non espressero alcun dubbio, alcuna contrarietà. In effetti quella era il loro Cristo, loro vi ritrovavano i rilievi visivi di sempre. A quel punto mi sono chiesto come mai nessuno trovasse drammatica quella scena: così ho cominciato a riunire, nel mio archivio, gli scatti che mostravano una situazione simile. Ho compiuto di nuovo l’esperimento mostrandole ad altre persone e la loro reazione era sempre la stessa: dipingevano esattamente il loro contesto, la loro casa, il loro paese, nulla di strano».
Una sorta di rimozione collettiva, nascosta da un velo di ipocrisia dietro cui si sono nascosti amministratori incapaci e imprenditori incoscienti, attori di una recita che fingeva di guardare al futuro e contestualmente, distruggeva il passato e il presente trasformando, a forza di condoni e concessioni in deroga, molti dei nostri paesi, in non luoghi deformi e privi di socialità.
Abusi, speculazioni e vere e proprie prepotenze mafiose. Come nel francobollo di spiaggia di competenza del comune di Stilo, poco più di 500 metri, in cui alcuni esponenti della cosca Ruga, agli inizi degli anni ’80, fecero costruire due villette in cemento armato in sfregio ad ogni logica. Avrebbero dovuto costruire due strutture amovibili destinate all’accoglienza e ai servizi turistici, tirarono su due ecomostri costruiti praticamente sulla battigia.

Finiti sotto sequestro nel 1984, si dovette aspettare il 2012 prima di vedere le ruspe all’opera. Un buco di 28 anni dettato da una burocrazia elefantiaca e condito dalla paura rispetto al potente clan che fece andare deserte tutte le gare indette per l’abbattimento delle villette. Fu l’intervento della Regione – e il presidio sul cantiere mantenuto dai carabinieri durante i giorni precedenti all’operazione – a scrivere la parola fine sull’ennesimo scempio edilizio sulla costa jonica.

Il nonfinito di Calabria, le responsabilità dello Stato

E se i calabresi si sono fatti colpevolmente travolgere dalla passione per il mattone e il calcestruzzo, altrettanto colpevoli risultano le istituzioni – Regione, Provincie, Comuni – che a quella fabbrica di nonfiniti ci ha aggiunto una montagna di progetti insensati che ha generato, negli anni, inutili e dannose cattedrali nel deserto. La storia della Calabria ne è piena: ovunque, dal Pollino allo Stretto, spunta lo scheletro di un teatro mai terminato o di un palazzetto dello sport abbandonato al suo destino senza che nessuno ci abbia mai giocato. Senza contare le numerose carcasse vista mare che, sull’onda lunga del miraggio dello sviluppo turistico, sarebbero dovute diventare alberghi o residence e che sono invece rimasti involucri vuoti a presidio delle spiagge di Jonio e Tirreno.
L'ex Liquichimica, l'industrializzazione mancata della Calabria

Se il mostro della Liquichimica di Saline, porta meridionale dello Stretto, resta il paradigma dell’ecomostro fine a se stesso – lo stabilimento non entrò mai in funzione dopo che l’agente chimico che lì si sarebbe dovuto produrre fu dichiarato cancerogeno – risalendo la Calabria gli esempi di incompiute su paesaggi da cartolina non si contano (servizio di Anna Foti).

Il galoppatoio di Portigliola, l’ippodromo fantasma alle porte dell’Aspromonte

Emblematico in questo senso il galoppatoio di Portigliola, paesino minuscolo tra l’Aspromonte e il mare, che agli inizi degli anni ’90 volle dotarsi di una struttura avveniristica in grado di ospitare gare di cavalli a livello internazionale. Cavalli che, ovviamente, mai furono portati fino alle porte della montagna, visto che la struttura, quasi ultimata, venne abbandonata al suo destino prima di entrare in esercizio.
Finanziata con fondi a bilancio dei mondiali di calcio del 1990 – una sorta di compensazione finanziaria alle regioni escluse dallo svolgimento delle partite – la storia del mastodonte costruito sulla rupe che incombe sul paese è ingloriosa e accidentata. Lungo più di cento metri, alto due piani e munito di stalle, punti di ristoro e sale riunioni, di quell’idea balzana di fare correre i cavalli nel cuore della Locride è rimasto, una volta esauriti i fondi già stanziati, uno scheletro gigantesco, saccheggiato di quanto si poteva portare via e vandalizzato dal tempo e dai balordi. Ma già dall’inizio le cose avevano preso una brutta piega. Saltato, per un diverbio tra i proprietari e il Comune committente dell’opera, l’acquisto del terreno su cui originariamente si voleva costruire, fu individuato un nuovo spazio che, qualche giorno prima della posa della prima pietra, si scoprì essere una concessione demaniale temporanea e quindi inutilizzabile per quella struttura. Pena la perdita del finanziamento di Italia90, il comune virò su un terzo terreno, questa volta sul pianoro che sovrasta il centro abitato. Ma anche in questo caso la scelta non si dimostrò oculata.
Quando i lavori di costruzione del galoppatoio si trovavano già in fase avanzata, fu la soprintendenza ai beni archeologici ad intervenire. Su quel sito infatti, già ampiamente compromesso dal cemento, gli scavi fecero emergere i resti di un insediamento preistorico. Bloccato a lungo dal vincolo della soprintendenza, quando fu possibile riprendere i lavori i soldi erano già finiti. Rimasto sul groppone alle amministrazioni che si sono succedute negli anni, del miraggio di Portigliola come centro ippico, resta uno sfregio profondo alla meraviglia del territorio. Calato come un’astronave aliena sulla collina, quel gigante grigio smorto resta piantato in uno dei posti più panoramici del territorio. Una terrazza naturale che, guardando il mare, abbraccia la costa da Roccella a Capo Spartivento e, voltandosi verso l’interno, ti mostra le cime di Montalto e di Tri Pizzi e ti affascina con le sagome di Platì e Gerace. Una meraviglia fragile – parte della rupe è soggetta a dissesto idrogeologicosacrificata sull’altare del mattone a tutti i costi.

L’agonia del palazzetto di Serra San Bruno

E se la provincia di Reggio può vantare, anche se non esiste un vero censimento, tanti esempi di cattedrali nel deserto, il resto della Calabria non se la passa meglio. A Serra San Bruno, ad esempio, nel cuore del parco delle Serre, a dare il benvenuto a cittadini e turisti che entrano in paese è, da decenni, il fantasma di centro sportivo polivalente. Voluto e appaltato dalla Provincia di Catanzaro ed ereditato alla fine degli ’80 dalla neonata provincia di Vibo Valentia, il palazzetto non è mai stato completato, trascinandosi di anno in anno in una lenta agonia. Costruito in cemento armato e mattoni sulla strada che collega Serra a Mongiana, nel 2012 venne giù anche il tetto in legno – praticamente unico apporto dell’ente vibonese all’opera – che, pur progettato per essere allestito in piena montagna, non resse il peso di une nevicata, franando miseramente. Inutilizzato e ormai inutilizzabile, giace lì, alle porte della cittadina montana, residuo tossico lasciato a marcire nel ventre del Parco.
E poi Catanzaro, Cosenza e Crotone, in un viaggio senza ritorno fatto di incompiute brutte all’inverosimile prima ancora che inutili. Come Parco Romani a Catanzaro: per quasi dieci anni impantanato in un’inchiesta giudiziaria finita in una bolla di sapone, e stritolato da una burocrazia surreale, il complesso commerciale che avrebbe dovuto risollevare le sorti di quella porzione di città, è rimasta una (costosissima) scatola vuota, ennesimo schiaffo edilizio alla città capoluogo. E ancora Cosenza, con lo scheletro di quella che doveva essere una palazzina di edilizia popolare ad accogliere cittadini e visitatori che entrano in città dall’autostrada. Al centro di una sfacciata speculazione edilizia – il progetto originario del Comune fu stravolto dalla ditta che aveva vinto l’appalto – e finita stritolata in un processo amministrativo infinito, la carcassa di quella palazzina avrebbe dovuto essere abbattuta e ricostruita. Dalla sentenza del consiglio di Stato datata 2018 sono però passati ormai cinque anni e la carcassa di quel palazzo è ancora saldamente al suo posto.