È morta a Milano a 91 anni l’artista che ha attraversato settant’anni di musica e costume italiano, tra eleganza, ironia, sensualità e una capacità unica di reinventarsi senza mai perdere profondità. Dagli anni del Piccolo Teatro all’incontro con Paoli, dalle canzoni della mala al Brasile, dal jazz alle collaborazioni con le nuove generazioni
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Ornella Vanoni
Pensare a Ornella Vanoni come a un capitolo chiuso sembra quasi impossibile. Il suo nome, il suo modo di muoversi sul palco, quella voce che sapeva fendere l’aria senza mai alzarla davvero, erano diventati una presenza stabile nella memoria collettiva italiana. Ieri, nella sua casa di Milano, a 91 anni, si è spenta un’artista che ha superato indenne il passare del tempo, non per ostinazione ma per grazia: Vanoni non ha mai inseguito la giovinezza, semmai l’ha accolta nelle sue metamorfosi, rendendola parte di un percorso che ha attraversato musica, teatro, costume, televisione. Il Paese che l’ha ascoltata è cambiato molte volte, ma lei ha sempre trovato un modo nuovo per entrarci, come se avesse un radar speciale per percepire ciò che stava arrivando.
Il racconto della sua vita è anche il racconto di tante vite diverse. La bambina timida, tormentata dall’acne, che desiderava diventare estetista. La giovane che cresce spostandosi da una città all’altra durante la guerra e nei collegi. La ragazza che torna a Milano e capisce che l’unico luogo in cui sente davvero di respirare è il palcoscenico. Da qui la decisione di entrare al Piccolo Teatro, dove un uomo come Giorgio Strehler la nota subito. Figurarsi se poteva passargli inosservata: aveva una fragilità luminosa, una naturalezza che diventava magnetismo. Strehler la plasmò come attrice ma la amò anche per la sua vulnerabilità, per quella smorfia lieve quando era insicura e per la determinazione che mostrava quando lo contraddiceva. Fu un amore bello e difficile, segnato dagli eccessi di lui e dalla sensibilità di lei, un amore che la formò e la ferì, ma che le lasciò un rispetto assoluto per la scena.
Il debutto nella musica, negli anni Cinquanta, fu già un terremoto. Nessuno aveva mai sentito una giovane donna cantare le “canzoni della mala” con quel tono sospeso tra ironia e tragedia, tra racconto popolare e teatro d’autore. A scriverle quei brani furono giganti come Dario Fo, e il pubblico – ancora immaturo, spaventato dalle novità – faticava a capire. Vanoni, però, non si lasciò intimidire. Non gridava, non forzava: semplicemente era. E questa sua naturale centralità, così lontana da ogni artificio divistico, fu la chiave della sua prima affermazione.
Poi arrivarono gli anni che l’Italia ricorda ancora come un’epoca dorata. L’incontro con Luigi Tenco, che la segnò con la malinconia delicata dei grandi fragili. E quello con Gino Paoli, il vero spartiacque: due caratteri ingombranti, due vite che s’incrociavano e si respingevano, due persone che non avrebbero mai smesso di pensare l’una all’altra. Paoli le regalò Senza fine, la canzone che più di tutte custodisce il suo modo di stare al mondo: elegante, sospeso, inafferrabile. Fu il lasciapassare per una carriera che da lì in avanti sarebbe stata un susseguirsi di successi e rivoluzioni. Sanremo, la televisione, i teatri: ogni luogo diventava naturale, come se Vanoni avesse inventato un modo suo di occupare lo spazio.
Ma ciò che colpisce della sua storia non è solo ciò che ha fatto da giovane: è ciò che ha saputo fare quando era già affermata. Nel 1976 sceglie il Brasile. Toquinho, Vinícius de Moraes, quella musica sensuale, calda, malinconica, così affine alla sua voce che sembrava scritta per lei. La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria è uno dei momenti più alti della sua carriera ed è anche il punto in cui Ornella cambia pelle: meno diva, più interprete totale, più libera. Subito dopo arriva il jazz, genere difficilissimo per chi vive di respiro, di pause, di intenzioni. Eppure Hancock, Garbarek, i musicisti più raffinati la accolgono senza riserve: riconoscono che quel timbro, unico, sa muoversi anche in territori complessi.
E poi c’è l’ultima Vanoni. Quella che negli anni Duemila diventa una presenza insieme leggera e profonda, capace di commentare la realtà con una lucidità che pochi politici e intellettuali hanno mostrato. Quella che trasforma l’invecchiamento in uno spettacolo di dignità e autoironia. Quella che parla di morte come si parla di una vecchia amica, che la aspetta senza paura. Quella che si diverte a spiazzare Fabio Fazio in diretta, che litiga e si riconcilia con mezzo mondo dello spettacolo, che scegli Elodie e Ditonellapiaga come compagne di viaggio nell’ultimo album Diverse. Quella che su Instagram diventa regina inattesa, con video dove ogni frase sembra una lezione di stile involontaria.
Vanoni non era mai prevedibile. Mai educata nel senso deteriore del termine. Non apparteneva a nessuno, nemmeno al pubblico. Era una donna che ha vissuto la sensualità con naturalezza, senza esibirla né reprimerla. Per questo così tante artiste la considerano un modello: ha aperto strade senza mai annunciarlo, ha scardinato tabù senza proclami, ha mostrato che forza e fragilità possono convivere senza contraddirsi.
La sua voce resta qui: vellutata, malinconica, consapevole, sempre un passo più avanti rispetto al sentimento comune. Resta nei dischi, certo, ma anche nella memoria affettiva di un Paese che l’ha vista crescere, ferirsi, rialzarsi, reinventarsi.
E allora sì, forse davvero non finisce nulla. La sua presenza era un modo di stare al mondo. Un modo che non si spegne. E mentre l’Italia la saluta, resta l’impressione più vera di tutte: che Ornella Vanoni, comunque la si guardi, non se ne sia mai andata davvero. Perché certe voci, certe facce, certi modi di essere non appartengono al tempo. Appartengono solo alla vita. E quella, per lei, non è mai stata una parentesi. È stata un’opera aperta. Sempre, ostinatamente, senza fine.

