Tiberio Bentivoglio, il grido di dolore del testimone di giustizia che denunciò la 'ndrangheta

VIDEO-INTERVISTA | Convocata stamani una conferenza stampa per denunciare la grave situazione in cui versa l’imprenditore: «Rischiamo di perdere tutto, lo Stato non funziona. Le risposte non date e le pratiche ferme, bruciano dentro di noi più dei proiettili»

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di Angela  Panzera
27 settembre 2018
15:17

Schiacciato dai debiti, ma anche rassegnato alla solitudine. Un grido di dolore al contempo acuto e profondo quello lanciato stamani a Reggio Calabria da uno dei testimoni di giustizia più noti in Italia, Tiberio Bentivoglio.
È un urlo disperato quello di Tiberio Bentivoglio che stamani ha convocato la stampa per denunciare la grave situazioni in cui versa. Titolare della sanitaria “sant’Elia” da anni vive sotto scorta perché è dal 1992 che denuncia lo strapotere della ‘ndrangheta. I suoi presunti estorsori sono liberi e nonostante le decine di denunce all’autorità giudiziaria non è mai stato incardinato un processo per fare luce sui sette attentati subiti, tra cui l’incendio del negozio fondato insieme alla moglie Enza, e il tentato omicidio del febbraio 2011.
Adesso si trova sommerso dai debiti e rischia di perdere negozio, la casa di famiglia ma, mai la dignità. Ed è per questo chiede aiuto alle istituzioni. «Il nostro calvario è iniziato nel 1992 sei mesi dopo che terminò la seconda guerra di ‘ndrangheta- dice Bentivoglio tra le lacrime. Infatti quello fu l’anno che ci fece conoscere gli ‘ndranghetisti in carne e ossa. Il nostro netto e determinato rifiuto di pagare il pizzo è stato letto da loro come una vera e propria sfida a quella che era una diffusa consuetudine. Siamo stati così condannati a subire, in tempi e modi diversi ma sempre violenti, vere e proprie “punizioni”. Ad ogni evento doloso abbiamo scelto la strada della denuncia. Sui tavoli della Procura abbiamo portato decine e decine di indizi per facilitare il lavoro degli inquirenti e consentire di costruire le prove necessarie per dare vita ai processi. Non denunce generiche e superficiali: abbiamo sempre raccontato ogni cosa nei minimi particolari e fatto i nomi di chi ci ha martoriato pretendendo i frutti dei nostri sacrifici», ribadisce con forza.


Bentivoglio ha infatti, testimoniato in aula durante il processo “Pietrastorta”, condotto anche contro la cosca Chilà, presente nel territorio di Condera, dove l’imprenditore aveva la sede della propria attività- che ha visto la condanna per associazione mafiosa dei suoi aguzzini i quali, però, sono stati assolti dall’estorsione nei suoi confronti. La Dda imbastì un altro processo contro presunti boss e gregari ma, questa volta ne uscirono assolti in primo grado e attualmente il caso è pendente in Appello. «Abbiamo inoltrato più volte esposti in Procura- ha dichiarato il testimone di giustizia- per rappresentare questa grave assurdità, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta, né siamo stati mai convocati per approfondire i fatti relativi ai primi tre eventi dolosi, dei quali non abbiamo mai ricevuto alcuna elargizione da parte dello Stato, nè tanto meno il motivo che ha determinando tanto ritardo. Deve arrivare il 2003 per poter essere convocati in Procura, anno in cui subiamo altro evento doloso: il 5 aprile una bomba ha devastato la nostra Sanitaria».



Bentivoglio fa nomi e cognomi ma, al momento non ci sono nomi e volti dei loro persecutori. «Nonostante le mie continue e tempestive denunce, ci sono stati gravi ritardi che hanno gravato e condizionano la nostra storia. Però voglio continuare ad avere ancora fiducia, almeno in quella parte di Stato che funziona»- sottolinea l’imprenditore.
La sua sanitaria adesso si trova in un bene confiscato, in pieno centro di cui però paga l’affitto al comune ma, adesso non ce la fa più. I clienti da quando ha denunciato sono pochi; anche in questo caso c’è lo “zampino” della ‘ndrangheta. «È stata messa infatti, “in giro”, la voce che siamo cari- dice arrabbiato- ma non è vero. Abbiamo un negozio assortito ed esclusivo ma, questo è un modo per farci terra bruciata intorno». Bentivoglio e la sua famiglia, nel corso degli anni, si sono dovuti scontrare anche con una enorme burocrazia e se la situazione non si risolverà al più resto lo costringeranno ad abbassare la serranda per sempre.
«Dal 2005 è iniziata la nostra sofferenza economica che si è sempre più aggravata. Sono state numerosissime le volte- dice affranto- che abbiamo cercato di sollecitare le pratiche, ma non ci siamo riusciti, anzi, per qualche funzionario degli uffici preposti siamo diventati ”arroganti “: ecco perché più volte ho scritto che se la giustizia arriva tardi, non è più giustizia». Ecco il perché dell’incontro odierno.

«Aiutateci ad uscirne»

Troppi debiti, troppe bollette da pagare, tante le richieste di prestiti ad amici e parenti. Troppi i “no” dalla politica e dalle istituzioni. «Non ho alcuna intenzione di fermarmi o di rinnegare la mia scelta - dice convinto l’imprenditore - per cui questo ennesimo grido di rabbia rappresenta ancora una volta una richiesta di aiuto rivolto a tutti gli organi di competenza, nessuno escluso. I danni subiti nell’ultimo incendio sono stati enormi, eravamo avviliti, perché non avevamo più niente da esporre in questo nuovo negozio. Era impossibile ripartire, per cui abbiamo chiesto aiuto ad alcuni amici e parenti e grazie a loro che siamo riusciti ad inaugurare questa struttura il 15 marzo 2016».

Debiti che però i continui non sono riusciti a colmare. «Tutt’oggi non siamo riusciti a restituire il denaro prestatoci e proviamo non solo rabbia, ma anche tanta vergogna per non poterlo fare. Al Comune, proprietario di questa struttura, abbiamo più volte chiesto di agevolarci con un prezzo di affitto adeguato alla nostra situazione rivedendo il contratto di affitto allora sottoscritto con il Tribunale della Prevenzione, nonché di fare qualcosa di concreto per le vittime di mafia. Ancora niente di fatto. Si attende con fiducia. La cosa più grave che può capitare a chi denuncia è, trovarsi con la casa ipotecata dallo Stato per contributi non versati e tributi non pagati, per il nostro bene immobile è già partita la vendita all’asta ma fortunatamente momentaneamente è stata sospesa dal Tribunale di Reggio Calabria». Sì perché il testimone di giustizia rischia di perdere anche la propria abitazione con il pesante rischio che magari l’acquisti la malavita, la stessa malavita che Bentivoglio da anni denuncia. «Abbiamo sempre la paura che da un momento all’altro la sospensione termini e si proceda alla vendita della nostra casa. Quando le nostre difficoltà economiche si sono aggravate qualcuno ci ha consigliato di venderci subito la casa, ma noi non abbiamo voluto, ha dichiarato- perché eravamo convinti che denunciare significava allearsi allo Stato che senza dubbio non ci avrebbe abbandonato. Che delusione. I nostri mezzi di lavoro, macchine e furgone sono in fermo amministrativo, pensate che del vecchio furgone dove ho trovato riparo quella mattina, crivellato di colpi di pistola, conservo le targhe in quanto non l’ho potuto nemmeno rottamare».

Una situazione davvero difficile quella dell’intera famiglia di commercianti. «I nostri figli sono disoccupati, nessuno li assume perché possiedono dei genitori che hanno denunciato, ma noi lo abbiamo fatto per non perdere la dignità e per poterli guardare sempre in faccia. Ora però, sono loro a guardarci – sottolinea Bentivoglio- e a chiederci se valeva la pena mandare in galera qualcuno, dato che il prezzo che stiamo pagando è altissimo. Denunciare è democrazia, ma perdere tutto per averlo fatto, significa essere trattati peggio dei delinquenti. Per cercare di fare conoscere meglio questa nostra storia, più volte abbiamo pensato di fare cose eclatanti, tipo incatenarci o cose simili, ma ci siamo vergognati, per cui vi chiediamo gentilmente e a gran voce di divulgare subito e ovunque questo nostro grido di aiuto».

 

Quello che più serve all’attività imprenditoriale del testimone è che lo Stato da un lato faccia luce sulla serie di attentati subiti in modo, finalmente da vedersi riconoscere a pieno titolo il suo status e che poi dall’all’altro si sblocchi definitivamente la serie di pratiche per i risarcimenti e i danni subiti. «Se a breve non avremo risposte- conclude Bentivoglio- molto probabilmente saremo costretti a chiudere l’attività, ma nessuno si dovrà permettere di dire che ci siamo arresi alla ‘ndrangheta: le vittime delle mafie non siamo noi, ma coloro che pagano il pizzo e con la loro omertà contribuiscono alla crescita della criminalità. Noi siamo Testimoni di Verità in attesa di Giustizia, perché abbiamo avuto la sfortuna di incontrare un pezzo di Stato che non ha funzionato, oppure lo ha fatto solo a intermittenza e con grave ritardo. Credeteci, le risposte non date e le pratiche ferme, bruciano dentro di noi più dei proiettili».

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