Il documentario

Sly, Stallone racconta Stallone. Su Netflix le confessioni di un attore che non è mai sceso dal ring

Dagli esordi difficili, alla svolta con Rocky nato dopo aver assistito a un incontro tra Alì e Wepner. Storia di un uomo che volle fortemente e ottenne quasi tutto pagando un prezzo altissimo

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di Alessia Principe
18 novembre 2023
21:45

Dove inizia Sly e finisce Rocky è difficile da capire. Dove uno allunga il braccio, l’altro allunga un’ombra. La locandina di “Sly”, il nuovo documentario da poco su Netflix, dà la misura di come un autore riesca a diventare il proprio personaggio, incastrarsi in esso come fossero due anime di uno stesso ventre.

Il pugile Rocky Balboa è il filamento vitale e trionfale intorno al quale l’attore, che veniva chiamato lo “Stallone italiano”, titolo anche di un film hard che ne segnò l’esordio, si è avvolto negli anni. Dopo Rocky e Rambo, Sly tentò per anni di dare alla propria carriera una svolta più impegnata. Ci riuscì con Fuga per la vittoria, ci provò con Cop land con scarsi risultati. 


Come nacque Rocky

Stallone nasce a Hell’s Kitchen da una famiglia complicata. Suo padre, italiano nato in Puglia, era un uomo brusco, sua madre una donna da poche carezze. I due si separano e Sly segue la mamma a Philadelphia. Ha quindici anni. Trova rifugio in una palestra e grazie allo sport arriva fino al college.

Alì e quella pura formalità

Il 24 marzo del 1975, al Richfield Coliseum, in Ohio, Stallone è tra il pubblico. Sulla scena i riflettori si incrociano sul ring. È sera di gran spettacolo perché c’è il “re” Mohamed Alì, pronto a mandare al tappeto il poco conosciuto Chad Wepner. In ballo c’è il titolo per i pesi massimi, per Alì è quasi una pura formalità. Non andò così. Wepner al tappeto non ci finì mai. Perse sì, ma per ko tecnico. Alì non faceva che colpirlo e lui rimaneva su. Ganci, montanti, e Wepner niente, barcollava, alzava la guardia ma le gambe erano incollate a terra. "The Bayonne Bleeder", così era soprannominato, prima dell'incontro disse a sua moglie: «Anche se non vinco, voglio solo dimostrare che appartengo a quel posto». Parole che tornarono sulla bocca di Rocky Balboa. Stallone, tornato a casa alla fine dell'incontro, non riusciva proprio a levarsi dalla testa Wepner e la sua incredibile resistenza. Prese carta e penna e iniziò a buttare giù il soggetto di Rocky.

Capì subito che il film non doveva puntare sulla venerazione del campione, o sul riscatto del ragazzo nato ai bordi di periferia, ma sulla tenacia che permette all'uomo di elevarsi. Il suo protagonista doveva parlare alle file più indietro, alla gente di strada, agli spiantati e doveva urlare al cielo che se lui poteva cambiare, tutto il mondo poteva cambiare.

Il giorno migliore e peggiore

Nessuno voleva produrre quel film, nessuno voleva dare credito a un ragazzotto italiano con quella smorfia stampata sul viso. Alla fine, tagliando sul budget a più non posso, uscirono fuori i soldi per ventotto giorni di riprese. Ci fu molta improvvisazione, un manifesto sbagliato, scene modificate in corsa, la storica scalinata. Si arrivò col fiatone al debutto. Il fratello di Stallone, Frank, nel documentario racconta: «Io dissi a Sly: questo potrebbe essere il miglior giorno della tua vita o il peggiore». Fu un successo senza precedenti.

La fama trascinò Sly come una slavina. Divenne ricco e famoso, ma finì nei guai per uso di anabolizzanti. Il suo carattere passionale lo portò sulle vetrine dei giornali di gossip, per la sua storia con Brigitte Nielsen, e poi molto dopo, a rompersi quasi la schiena per girare i Mercenari, chiamando tutti gli attori dei film d'azione degli anni 80 e 90 che a lui sono molto affezionati, da Jason Statham, a Dolph Lundgren, Jet Li, Mickey Rourke, Arnold Schwarzenegger e Bruce Willis. 

Il dolore per Sage

Ha tanti rimpianti Sly, lo dice davanti alla camera. Gli pesa, oggi, di essere stato un marito e un padre lontano, e poi c'è quel dolore, che non sbiadirà mai, per la perdita dell’amato figlio Sage apparso anche in Rocky V.

Stallone sentiva che la storia di Balboa non era ancora finita e regalò altri due capitoli al suo personaggio, il suo alter ego quasi, e con Creed sfiorò anche l’Oscar come miglior attore non protagonista.

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L’animazione giapponese, negli anni Settanta, creò quell'Ashita no Joe di Asao Takamori, traducendo il titolo italiano in Rocky Joe proprio in omaggio a Balboa e a Marciano. Nella serie animata Rikishi, l’avversario di Joe, ha una straordinaria somiglianza con Stallone che avrebbe interpretato Rocky, però, solo qualche anno dopo. Uno segno del destino, forse un segno del caos che batte le ali in Giappone e crea un sogno a Philadelphia.

 

 

 

 

Giornalista
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