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“Il Sequestro del volo 601” su Netflix, ecco la vera storia del dirottamento raccontato nella serie tv

L'ultima produzione del gigante dello streaming ha romanzato di molto una vicenda realmente accaduta nel 1973 in Colombia, basata sul libro del giornalista Massimo Di Ricco

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di Alessia Principe
18 aprile 2024
13:33

«Dirotta su Cuba!» Se in Italia questa frase rimanda subito al nome di un gruppo musicale molto popolare negli anni Novanta, al livello storico ricorda l’ordine che i rivoluzionari impartivano ai comandanti di molti aerei che solcarono i cieli sudamericani tra il 1967 e il 1973. Si contarono, in quel periodo, circa 90 dirottamenti aerei in America Latina, di cui una trentina solo in Colombia. Lo riporta con dovizia di particolari il libro “Los Condenados del Aire”, del giornalista Massimo Di Ricco, da cui è tratta la serie Netflix “Il sequestro del volo 601” da pochi giorni disponibile sulla piattaforma della grande Enne Rossa.

Cuba, a quel tempo, rappresentava per i rivoluzionari una sorta di luogo utopico, lontano dal capitalismo americano che aveva punito con l'embargo un popolo ritenuto una minaccia. Era, insomma, la terra ideale dove far atterrare i velivoli dirottati al grido "Rivoluzione o morte!" Nel caso del volo 601, Cuba restò però solo il desiderio di un comandante. 


Signore e signori, benvenuti a bordo

È il 30 maggio del 1973. Un Lockheed L-188 Electra della Sociedad Aeronáutica de Medellínè (SAM) è appena decollato da Pereira, in Colombia, con 84 persone a bordo. Il tempo è l’ideale per un volo tranquillo. Tra le poltrone siedono uomini di affari, sportivi, famiglie con bambini. Due ragazzi sono seduti tra i passeggeri e conversano con un gruppo di ciclisti. Quando il SAM si assesta in quota, i giovani spianano le armi e urlano ai passeggeri di rimanere ai loro posti. Sulle prime, qualcuno pensa ad uno scherzo. «Pensavamo che fosse là per … disturbare» disse un testimone molti anni dopo. «Ma poi quello ha sparato in aria». Inizia così un incubo lungo 60 ore e 24mila miglia. I due si dirigono verso la cabina di pilotaggio. Con una pistola puntata alla tempia intimano al comandante di cambiare rotta.

«Dimmi cosa vuoi?» chiede Jorge Lucena, alla guida del Sam. 

«Aruba», risponde il sequestratore.

 Il comandante sgrana gli occhi: «Non Cuba?».

«Aruba».

Sono trascorse circa 30 ore dal sequestro quando le autorità riescono a persuadere i due (Eusebio Borja e Solano Lòpez “Toro”, aspiranti calciatori) a sostituire l’intero equipaggio esausto. A bordo salgono due hostess, Edilma Perez e Barbara, e un nuovo comandante, Hugo Molina affiancato da Pedro Ramìrez (copilota) che avranno un ruolo fondamentale nelle ultime fasi del sequestro. Una volta atterrati ad Aruba Borja e Toro chiedono un riscatto di 300mila dollari (100mila dollari in più di quello che avevano chiesto nelle prime ore del dirottamento) in nome dell’organizzazione guerrigliera colombiana Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), oltre al rilascio di un gruppo di “prigionieri politici”. La cosa curiosa è che nessuno dei due ha un accento colombiano.

La sosta ad Aruba dura il tempo della consegna della prima sacca col denaro. Cinquantamila dollari, pagati non dal governo che si rifiuta di trattare con i «terroristi», ma dalla compagnia aerea. Sono le 3:15 del mattino quando il SAM riprende quota dall’aeroporto di Oranjestad, direzione Lima. Prima del decollo da Aruba, però, vengono fatti scendere donne e bambini e un gruppo di ciclisti. Durante il volo qualcosa va storto, e l’aereo è costretto a tornare ad Aruba, dove rimarrà per altre 10 ore. In quel lasso di tempo, però, alcuni passeggeri riescono a trovare un varco che consente a molti di saltare giù dall’aereo. 

Intanto la trattativa tra la compagnia e i sequestratori gira a vuoto. Per la terza volta, Borja e Toro, ordinano al comandante di prendere quota e lasciare Aruba. A Lima, il Sam fa rifornimento di carburante ripartendo per Mendoza, in Argentina. Lì vengono rilasciati tutti gli ostaggi, tranne i piloti e le hostess. Una volta compreso che non avrebbero avuto altri soldi, Borja e Toro, scelgono di scappare e si fanno lasciare in due luoghi diversi: a Resistencia, vicino al confine con il Paraguay, e ad Asunción. Per coprire la fuga, decidono di portare con sé una hostess a testa, ma l’intervento di Ramìrez evita il prolungarsi dell'agonia per le due donne. Il pilota propone ai dirottatori di scendere dal volo senza nessun ostaggio, promettendo in cambio (quello che venne chiamato un “patto tra gentiluomini”) di non rivelare i luoghi di atterraggio fino all’arrivo a Buenos Aires. Patto che Ramìrez onorò fino in fondo, nonostante le conseguenze a cui andò incontro, visto che fu accusato di complicità con i sequestratori.

La fuga di Solano López non durò molto. Ad Asunción comprò una casa vicino a quella della sua famiglia, e fu riconosciuto e arrestato. Eusebio Borja, invece, svanì nel nulla come in un numero di magia fatto di inganni. Come quell’arma fasulla puntata sui passeggeri prima di sparire con una valigia piena di dollari e un nome nuovo in tasca.

 

 

Giornalista
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