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“La società delle neve”, l’incredibile storia dell’incidente sulle Ande torna sullo schermo

Dopo “Alive” del 1993 diretto da Marshall con Ethan Hawke, su Netflix un altro film racconta gli incredibili 72 giorni della squadra uruguaiana precipitata sulla Cordigliera nel 1972

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di Alessia Principe
16 gennaio 2024
20:45

Il 12 ottobre del 1972 all’aeroporto di Carrasco, Montevideo, splende il sole. Roberto Canessa ha 19 anni ed è iscritto al secondo anno di Medicina. Sono sue le gambe più forti della squadra di rugby uruguayana, gli Old Christian, nata un decennio prima da un’idea di ex allievi del collegio Stella Maris. L’ultima vittoria, alla finale, porta la sua firma. Lo chiamano “muscolo”: un tre quarti ala resistente, preciso. È uno che vende cara la pelle. Nessuno poteva immaginare quanto. Neanche lui stesso.

Il giorno di fine campionato gli tocca tirare l'ultimo calcio piazzato. Va a segno. Si festeggia. Festeggiano tutti. Sono giovani col sole in fronte. Quando arriva la convocazione per la partita contro una squadra di Santiago, non stanno nella pelle. È il loro momento. Non poteva essere diversamente.


I film ispirati alla tragedia

“La società della neve” di J.A. Bayona (su Netflix, in corsa all’Oscar come miglior film straniero, adattamento dell'omonimo libro di Pablo Vierci) riporta in cronaca una storia che sembra pura finzione, ed è invece il racconto dettagliato e molto fedele, dei 72 giorni che i sopravvissuti all’incidente delle Ande trascorsero in condizioni oltre il limite della sopportazione umana. Nel 1993 fu il regista Frank Marshall a portare sul grande schermo “Alive – Sopravvissuti”, con Ethan Hawke e John Malcovich (non accreditato, che apre il film con un monologo da brividi), forse la trasposizione più famosa di quei tragici eventi (la prima fu di René Cardona nel ‘76). L’incidente delle Ande, all'epoca, ricordò all’Italia il dramma di Superga. Ma lì nessuno riuscì a sopravvivere per raccontarlo. Per il Gran Torino non vi fu alcun miracolo, la sua storia finì contro un muraglione il 4 maggio del 1949.

Dopo 20 anni analizzi molto. Ti ricordi le persone, l’eroismo. Il miracolo delle Ande, così lo chiamavano. Molte persone vengono da me e dicono che, se fossero state lì, sicuramente sarebbero morte. Ma fa non ha senso, perché finché non ti trovi in una situazione del genere non hai idea di come ti comporterai. Affrontare la solitudine senza decadenza, o una sola cosa materiale a cui prostituirsi, ti eleva su un piano spirituale, dove senti la presenza di Dio... Ora, c’è il Dio che mi hanno insegnato a scuola e c’è il Dio che è nascosto da ciò che ci circonda in questa civiltà... Questo è il Dio che ho incontrato sulla montagna.
John Malcovich (Alive)

La partenza da Montevideo

Quel giorno, a Montevideo, sul volo 571 di posto a bordo ce n’è anche per parenti e amici degli Old Christian. La società ha investito 1600 dollari per portare i suoi ragazzi a giocare e vincere, ancora. Il Fokker Fairchild Fh-227D, uscito dai cantieri olandesi, è un velivolo militare: comandi manuali, flap elettrici, Un gioiellino, quando venne venduto Oltreoceano alla fine degli anni Cinquanta. Da tempo, ormai, per risollevare le casse, il governo uruguaiano aveva deciso di affittare la flotta della Fuerza Aerea ai privati e di charter ne partivano diversi. Uno è prenotato per quel 12 ottobre.

Davanti ai portelloni aperti ci sono tutti. I parenti li salutano da dietro le vetrate. C'è chi scatta una foto. Qualcuno è distratto, piega la testa e perde il fuoco, i più sorridono, salgono e si lasciano il mondo alle spalle. Un mondo che molti non rivedranno più. Il comandante che dà il benvenuto a bordo è il colonnello Julio César Ferradas, 39 anni. Il copilota, è Dante Héctor Lagurara, un tenente colonnello e non ha ancora maturato tutte le ore di volo per guidare come comandante in prima. Dietro di loro, aiutano i passeggeri ad accomodarsi, l’ufficiale di rotta, il tenente Ramón Martínez, il meccanico di bordo, sergente Carlos Roque, uno steward, il sergente Ovidio RamírezNessuno di loro s’è salvato.

Tre minuti fatali

Vennero fatte tante ipotesi su ciò che accadde dopo che l’aereo, costretto a fare scalo a Mendoza a causa di una fitta nebbia, si librò sulla Cordigliera delle Ande. La più probabile è quella legata a tre minuti. Tre minuti di errore. Tre minuti che il comandante calcolò in modo sbagliato. Ferradas credeva che l’aereo fosse già sopra Curicò, una località cilena, e deviò verso Nord, in direzione dell’aeroporto Benitez di Santiago. Ma il Fokker alle 15:24 non era lì dove i piloti credevano che fosse. Le forti raffiche di vento ne avevano rallentato l’andatura e quando l’aereo cominciò la discesa, spaccando il tappeto di nubi, il comandante si accorse che al posto della spianata che annunciava lo scalo, c’erano le punte innevate della Cordigliera. Il tentativo, disperato, di riprendere quota non servì.

Alle 15:31, sette minuti dopo la comunicazione alla Torre di comando cilena, il Fokker colpì con l’ala destra la roccia. Questa si staccò diventando una lama che, prima di disperdersi nell’aria, tagliò in due la cambusa. I passeggeri che si trovavano verso la coda vennero spazzati via, risucchiati. L’elica distrusse la fusoliera. Quel che restava dell’aereo somigliava a un siluro che atterrò, scivolando per 4 chilometri, su un territorio piano. Nel cuore delle Ande. Nel cuore del nulla.  Delle quarantacinque persone a bordo, solo sedici sopravvissero, dodici morirono subito.

Il miracolo delle Ande

Questa storia è chiamata “Il Miracolo delle Ande” e anche “La tragedia delle Ande”. Due accezioni diverse, eppure complementari che si incastrano per raccontare di 72 giorni che superano ogni immaginazione, ogni sofferenza fisica conosciuta. I sopravvissuti all’impatto, fecero la conta dei morti e dei feriti. Lo schianto aveva schiacciato molti, provocando gravi lesioni che risultarono fatali. Nelle prime ore, il dolore fu vinto dalla speranza che i soccorsi sarebbero arrivati presto a portarli in salvo. Non accadde. Più trascorrevano i giorni, più lo sconforto aumentava e le risorse diminuivano. «Avevamo otto tavolette di cioccolata, cinque tavolette di torrone, alcune caramelle sparpagliate sul pavimento della cabina, pochi datteri e prugne secche, un pacchetto di cracker salati, due barattoli di vongole, un barattolo di mandorle salate, e tre vasetti di marmellata: uno di pesche, uno di mele e uno di more». Queste le poche risorse raccolte frugando nelle valigie. 

I soccorsi interrotti

Di notte il gelo segava anche i pensieri. I feriti continuavano a morire e i soccorsi a mancare. Una radio a transistor, ancora funzionante, suonò il Requiem da una cassa scalcinata annunciando che le ricerche erano state interrotte, come da protocollo. Il mondo li credeva morti. Ma loro non lo erano. Volevano vivere. Così fecero quello che sembra inimmaginabile. Si cibarono dei cadaveri dei compagni e degli amici morti, che il freddo (la temperatura toccava anche i -30 gradi) conservava intatti.

Una notte, mentre cercavano di vincere la paura raccontando cosa avrebbero fatto una volta usciti fuori da quell'inferno, una valanga che travolse la fusoliera trasformandola in una bara di ghiaccio. Molti restarono sepolti, e nonostante i tentativi dei sopravvissuti di tirarli fuori, non riuscirono a farcela. Ma lo spirito di sopravvivenza, vinse ancora.

L'impresa a 4mila metri di altitudine

Toccava a “muscolo” Roberto Canessa, tentare l’impresa. La convinzione che il gruppo si trovasse già in territorio cileno (mentre in realtà erano ancora in Argentina), mosse il coraggio di Canessa e del suo compagno Parrado, che aveva appena detto addio alla sua amata sorellina, spirata per le ferite. Si avvolsero i piedi in cinghie e maniche, crearono delle ciaspole alla bell’è meglio e un sacco a pelo col materiale isolante dell’aereo. Costruirono bastoni e sistemarono nelle borse cibo per dieci giorni. L’unica possibilità rimasta era attraversare a piedi le Ande e sbucare in Cile.

Seguirono il sole, camminando fino a 4200 metri di altitudine. Fu un'impresa che rimase nella storia e mise a dura prova il fisico e la mente dei due ragazzi perché ogni volta che i due scalavano una montagna, il panorama ai loro piedi rimandava altre cime, moltiplicate per altre cime. Il 22 dicembre arrivarono al Rio Azufre, un fiume che aveva scavato una valle tra le montagne. Al di là del corso d’acqua un pastore li osservava. Così si salvarono e salvarono tutti gli altri. In un'intervista rilasciata due anni fa, Canessa, ora cardiologo, disse: «Mi sono detto che essere un eroe caduto mentre attraversava le Ande sarebbe stato meglio che morire sotto la carlinga. Ero quasi certo che non ce l’avrei fatta, eppure mi sono appigliato all’impossibile». E l'impossibile è accaduto. 

Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?

Dal biglietto scritto al mandriano da Parrillo con un rossetto

 

 

 

 

 

 

Giornalista
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