Il futuro del Sud

C’è tanto da fare per la Calabria. Qualcuno lo fa, altri aspettano che sia fatto

I nostri giovani hanno capito che il ritardo del Sud, frutto delle politiche razziste di 160 anni di finta “Unità”, non è una condanna, ma può essere una opportunità: è dove c'è tanto di non fatto che c'è tanto da fare e ogni investimento rende molto di più (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Pino Aprile
14 novembre 2021
07:01
Immagine di repertorio da pixabay (foto di josealbafotos)
Immagine di repertorio da pixabay (foto di josealbafotos)

La distanza fra quel che vorremmo e dovrebbe essere (una comunità liberata dal bisogno e in cui sia possibile il sogno; o anche soltanto una comunità e una terra che si vedano riconosciuti gli stessi diritti goduti, con i soldi di tutti, solo a una parte del Paese) è talmente grande, che sembra quella dell'orizzonte: più ti avvicini, più si allontana. Sensazione che induce spesso alla rinuncia: “Tanto è inutile”. Non è vero. Ripeto: quello che non succede in cento anni accade in cento giorni, grazie, quasi sempre, a chi non si chiede quanta sia la strada da fare, ma sa che, quale che sia la lunghezza del percorso, ogni passo lo accorcia. E vale anche per la presunta “Calabria irredimibile”.

Non è vero che “le cose non cambieranno mai”

Ogni tanto, serve guardare indietro per capire che non è vero che “le cose non cambieranno mai”. Chi si soffermasse a osservare la condizione presente della Calabria, difficilmente potrebbe arrivare a una conclusione diversa: poco lavoro, tanta emigrazione; Sanità a pezzi; trasporti pessimi; coste deturpate da abusivismo tale che il mare ha detto basta e sta facendo quello che le istituzioni evitano: la demolizione; lo stesso mare offeso da scarichi di depuratori inerti; politica lontana dalla gente o gente lontana dalla politica; criminalità prepotente che soffoca le iniziative economiche che potrebbero dare fiato alla comunità sfiduciata e tarpa le ali a quanto già esiste e potrebbe decollare; e: continuate voi, per favore?

Eppure... Eppure cosa? Il livello di comprensione delle cose e del perché delle cose è sempre più alto e diffuso (lasciate stare le cretinate dell'Invalsi sugli studenti meridionali): i nostri nonni furono costretti a scoprire il mondo, solcare gli oceani, imparare altre lingue, per trovare Paesi disposti ad apprezzarne e valorizzare le capacità che il Paese d'origine denigrava e sprecava. Il nostro Sud, che per millenni è stata meta di immigrazione, anche a popoli interi, in pace o in armi, per la prima volta nella storia, con la civiltà industriale e l'unificazione squilibrata (il Nord arricchito a spese del Sud) era diventato luogo da cui fuggire per miseria (è falso quello che leggete nei libri di scuola: non era “già prima” così, o anche peggio, tant'è che non se ne andava nessuno, restavano; il che non vuol dire che fossero ricchi, ma che, per quanto pesante, la loro condizione era ritenuta ancora preferibile all'abbandono).


I nostri figli e nipoti hanno ereditato quella apertura al mondo “per costrizione” e la civiltà informatica l'ha moltiplicata, rendendola planetaria: per loro e i loro coetanei, non importa di dove, il campo di gioco della vita non è più il paese, ma il mondo. E questo ha insegnato ai nostri giovani, come a tutti gli altri, che con la globalizzazione, non sempre è necessario essere in un posto per agire, lavorare in quel posto e si può essere universali stando a casa propria: la globalizzazione de-localizza. Il che crea, per simmetria e bilanciamento, un fenomeno uguale e contrario: il bisogno di radice che, più te ne allontani, più si fa forte. E ancora: essere in un luogo virtuale che non ha distanze, in cui tutto è compresente e alla pari, educa a capire che se ogni virgola è universale, pure il mio paese lo è e va vissuto come tale. Non vuol soltanto dire che puoi fare a Polistena quello che faresti a Milano o Londra, senza che questo faccia qualche differenza, per gli altri e per il risultato; vuol, dire anche che quanto per me, per noi, è banale, quotidiano, a volte persino ritenuto deteriore, per altri può essere scoperta, eccellenza, sogno.

Il ritardo del Sud può essere opportunità

Ormai è divenuta regola “l'eccezione” di giovani che, compreso questo, e pur potendo avere carriere interessanti altrove (al Nord, all'estero), scelgono di tornare al proprio paese e agire da casa propria in un teatro planetario; perché, in un mondo universale, il centro non esiste, non è il posto dove andare per avere spazio e futuro, è dove decidi di stare, sei tu.
I nostri giovani, e non solo loro, hanno capito che il ritardo del Sud (frutto delle politiche razziste di 160 anni di finta “Unità”) non è una condanna, ma può essere una opportunità: è dove c'è tanto di non fatto che c'è tanto da fare e ogni investimento rende molto di più. Lo spiega la Banca d'Italia, quando dice che ogni euro prodotto al Sud rende per un euro e 40 centesimi, mentre al Nord (ormai saturo) rende un euro e 5 centesimi scarsi. È quanto dice l'Unione Europea quando, per rilanciare l'economia italiana e grazie a questa quella tedesca e quindi continentale, destina all'Italia il doppio, pro-capite, di quel che viene dato a ogni altro europeo, ma chiede di investire nel Mezzogiorno, perché ha il più alto differenziale di sviluppo da sfruttare.
E sapete qual è il differenziale più grande? La memoria.

La Calabria ne è l'esempio più evidente: i suoi paesi sono nati e morti più volte nella storia: magari, perché sgarrupati da un terremoto sono risorti più a valle; poi perché distrutti dai saraceni, o i normanni, o i francesi di “libertè”, invece di recuperare le rovine hanno ricominciato un po' più in là; poi rasi al suolo, in una notte o in cento anni, da un'alluvione, una frana, li hanno riedificati sull'altra sponda della fiumara; poi, la paura delle incursioni barbaresche ha svuotato le case sulla marina, riportando la gente in montagna; poi perché i pirati non ci sono più (al massimo i profughi) e la montagna è difficile da raggiungere, mentre traffici e commerci sono sulla costa, si è tornati a costruire e risiedere sulla costa...

La Calabria e i paesi migranti 

La Calabria ha paesi migranti o perduti che han conservato il nome rinascendo in luoghi diversi. Così, hai il paese attuale, altrove i resti del precedente, o di quello ancora prima, o una zona in cui nemmeno tracce di quel che c'era sono rimaste, se non il nome, come un fantasma l'eco di una vita; in alcuni casi, nella migrazione da un posto all'altro, anche il nome si è perso. Se si confrontano le mappe nel corso dei secoli, si vedono quei nomi in posti differenti, si pensa a errori dei cartografi, invece sono le tante vite dei paesi erranti. Il risultato è che gran parte dei paesi sopravvivono nella memoria (o nemmeno più in quella); di altri, l'ultima risorgiva con lo stesso nome è nella geografia, tutte le altre, nella storia o nella mitologia.

Storie di ritorni

Ma tutto questo ha intriso il territorio, il linguaggio, i comportamenti, e quei paesi esistono tutti insieme, nell'anima dei calabresi, nel loro carattere, nel modo di pensare, desiderare, senza che, salvo rari casi di consapevolezza estrema, nemmeno ci se ne renda conto. Un sapere inconscio che riaffora nelle scelte di vita. Sì, anche dei giovani che tornano o restano, ormai fenomeno culturale, sociale, economico, ma preferisco riportare l'esperienza di Ugo Sergi e Fabrizio Marzano. Il primo comprese decenni fa (aveva uno studio legale affermato, lo chiuse) che in quello che si disprezzava c'erano valore e futuro e, dal bergamotteto di famiglia, lanciò una follia turistica (allora!): il sentiero del pittore Edward Lear che nell'Ottocento, a piedi e con l'asino risalì, per i costoni e fra le cascatelle della fiumara-madre dei grecanici, l'Amendolea, ai borghi della Bovesia. Oggi vengono dall'Australia, dalla Cina, dal Canada a farsi 'sta scarpinata. Ugo vende memoria.

Fabrizio gestisce il B&B in cui risiedo quando sto in Calabria, per lavorare a LaC. Aveva una impresa importante a Milano, e si riteneva fortunato di potersi permette di rientrare a Vibo Marina quando voleva, per starsene in veranda, sul mare, a sorbire un caffè con i tempi della meditazione. Finché si disse: perché non capovolgere la scelta? Piantò tutto, tornò a Vibo, prese in gestione il B&B; molti ospiti, con cui dialoga in veranda, gli chiedono stupiti: ma l'azienda, Milano... E lui, indicando le barche nel porto: «Quanto vale alzarsi la mattina e prendere il caffè con l'aria del mare di Vibo?». I suoi ospiti scoprono che nel prezzo del soggiorno c'è altro: sentono un altro sapore del caffè, si accorgono che non guardavano davvero il mare, lo vedevano soltanto.

Aneddoti con una spruzzatina di romanticismo? No, segnali di un mondo che cambia e rivaluta se stesso; e vede Azimut investire 35 milioni nel progetto innovativo di Entopan, uno dei più grandi del suo genere, e si fa in Calabria; vede il Dipartimento di matematica applicata all'informatica dell'università delle Calabrie, diretto dal professor Gianluigi Greco, divenire il migliore d'Europa, mentre approdano, intorno ad Arcavacata, filiali delle maggiori multinazionali informatiche e sorgono grappoli di nuove aziende, per iniziativa di quei laureati e del loro prof; e si vedono le università calabresi guadagnare posti in classifica; e due meravigliose ragazze portare alla Calabria le prime medaglie paraolimpiche, mentre l'uomo più veloce del mondo è calabrese per paternità acquisita, formazione e residenza per parte della vita; e vede lo Stato strutturarsi come mai prima contro la 'ndrangheta, per decisione ed efficienza, con una rete di magistrati e investigatori di altissimo livello, istruire una serie di grandi inchieste e processi, dal Gotha di Reggio Calabria al Rinascita Scott di Lamezia Terme, che si chiudono con condanne pesanti che confermano le accuse (70 su 91, per il rito abbreviato, una settimana fa); vedi un procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, che in pochi mesi ha fatto costruire la più grande aula bunker di sempre (è Stato pure lui, ma provate a immaginare quanto ci avrebbe messo un ministero, un assessorato regionale...) e ha fatto ristrutturare, a tempo di record, un convento a Catanzaro, facendone la nuova sede della Procura (nel frattempo divenuta la più efficiente d'Italia), sfruttando finanziamenti che si sarebbero quasi certamente persi; e vede...

Tu cosa hai fatto perché almeno quel poco si levasse dalla pagina del “niente”?

Lo so cosa state pensando voi freddi raziocinanti, di quelli che “a me non mi freghi”, che non si fanno ingannare da poche luci e continuano a vedere il buio e dicono: ok, ma  è così poco, che è niente.
Beh, non è così: intanto, quel poco è sempre meno poco e sempre più qualcosa; e poi, la differenza fra niente e poco non è “poco”, è enorme, perché quel poco indica un cammino in corso, un avvicinarsi alla soluzione. Vuol dire che qualcuno di prova e riesce, mentre quelli che hanno capito tutto sono fermi al niente, perché “tanto è inutile”.
Guardiamoci alle spalle, misuriamo quel poco, che poco non è più. La domanda vera, a cui si vuole sfuggire, è questa: e tu cosa hai fatto perché almeno quel poco (che cresce) si levasse dalla pagina del “niente”? La regola è che quando quel poco sarà diventato tanto, chi non ha fatto niente spiegherà che si poteva fare meglio e di più.

Giornalista
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