I muri di paese e i manifesti della Lega, quando la propaganda vince sulla memoria

Nelle stesse strade dove giocavamo a pallone oggi appare il profilo di Alberto da Giussano con il suo spadone che invita a votare per chi voleva la secessione
di Agostino Pantano
21 febbraio 2018
15:27

Confesso che mi provoca imbarazzo vedere, nel mio paese del profondo Sud, i manifesti della Lega. I muri e le strade del “piccolo mondo” dove sono anche cresciuto usurpati dalla mano, prezzolata o liberamente appassionata non importa, che impasta colla per lasciare impresso in chi guarda uno strano calendario del tempo passato, elettorale ed emotivo.

Non ne faccio una questione politica; ho amici e perfino parenti che votano l’intatto simbolo verde del settentrione opulento, quel “Guerriero di Giussano” amputato di quella parolina – Nord – per via di un allargamento nazionale studiato e, a quanto pare, ben riuscito fin qui. Eravamo ragazzi cresciuti senza l’ansia del muro di Berlino, quando alla foce del Po ci hanno detto che, invece, dovevamo vergognarci di essere meridionali; noi, venuti su sotto la linea di quella che un tempo chiamavano “Roma ladrona”, oggi, ai muri sfarinati di quella fame di sviluppo rimasta intatta - dove ieri tiravamo pallonate perché non avevamo campi – interiorizziamo quel marchio politico che diventa il nostro panorama visivo e democratico.


 

Annientati nei nostri ricordi, “dormono sulla collina” gli insegnanti meridionali che al Nord non volevano; col seggio aperto, abbiamo ridotto in fantasmi evaporati pure le braccia dei nostri cari andati a rafforzare - negli anni ’90, mica a inizio secolo – quel triangolo industriale allargatosi fino a Trieste e Aosta, diventato quadrante infernale di una nuova emigrazione che i leghisti ci hanno rinfacciato, nutrendosi tanto del disprezzo di noi, quanto del Pil cresciuto. Vincerà o perderà la Lega, non importa; ciò che conta è che questi nostri muri meridionali e disordinati erano e tali sono rimasti: un necrologio può coprire un manifesto elettorale, amen.

 

Con l’aggravante che chi oggi li riempie con una gigantografia che racconta un “un sogno nuovo” – senza rinnegare i vulcani che ha invocato perché ci inghiottissero, la secessione diventata indipendenza e autonomia – si atteggia a leghista che libera, non a piemontese che invade. E ci tranquillizza per questa “rivoluzione emotiva”, con parole di guerra – ai migranti che sostituiscono i meridionali nel vocabolario politico – senza colpo ferire. L’urna deciderà qualcosa, ma il cuore è già trafitto: la minoranza che voterà Lega, nel linguaggio dei sentimenti collettivi, rappresenta tutti noi e il nostro vissuto di Mezzogiorno che, accusato di “mafia, sole, pizza e mandolino” – col sacro rispetto per la colla democratica che imbratta i muri - diventa merce per la futura tenuta di qualche governo a trazione settentrionale.

Nulla di nuovo, dal punto di vista storico e politico, se non un “muro di propaganda” che non è più solo nostro: è dell’Italia finalmente unita anche per la Lega.  

Giornalista
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