L’intervista

Da 6 anni cappellano al carcere di Cosenza, don Viktor: «All’inizio è stato difficile ma ora mi sento arricchito»

VIDEO | Trascorre le sue giornate tra i detenuti e coordina il loro laboratorio artigianale. «Chi finisce dietro le spalle per droga spesso viene abbandonato dalla propria famiglia. Gli stranieri soffrono di più, non conoscono la lingua e mi chiedono di contattare i loro cari»

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di Emilia Canonaco
13 febbraio 2024
20:20

"Sono venuto a giudicare il peccato, non il peccatore". Don Viktor Velez Loor cita Gesù per spiegare cosa significhi svolgere la funzione di cappellano all'interno della Casa circondariale di Cosenza. Originario dell'Ecuador («dove i detenuti non hanno neanche da mangiare»), don Viktor è arrivato in Italia nel 2008 e da due anni è vice parroco presso la chiesa San Francesco Nuovo, che si trova nel quartiere popolare di via Popilia.

«All'inizio, fare il cappellano è stato davvero molto difficile: non conoscevo l'ambiente e le persone. A volte, mi capitava persino di avere paura. Adesso, invece, posso dire che questa esperienza mi ha arricchito moltissimo».


Don Viktor si reca nel carcere di Cosenza dal martedì al sabato. «Arrivo alle otto e spesso mi fermo fino alle cinque del pomeriggio». Ogni mattina, compie sempre gli stessi gesti. A partire dalla consegna del telefono cellulare, custodito all'interno di una cassetta di sicurezza, fino alla fine della giornata. A significare che il mondo rimane fuori, insieme con la libertà.

Noia e depressione sono i nemici principali con i quali ogni detenuto impara molto presto a fare i conti. Il lavoro svolto all'interno dell'istituto di pena riempie giornate che sembrano infinite e occupa la mente. «I detenuti ospitati nel reparto di alta sicurezza - spiega don Viktor - lavorano generalmente all'interno della cucina. Gli altri invece sono impiegati in attività di giardinaggio, lavanderia e manutenzione. I soldi che guadagnano vengono utilizzati per piccole spese presso lo spaccio. Se non lavorassero, alcuni detenuti non avrebbero neanche la possibilità di comprare una bottiglia di acqua, e sarebbero costretti a bere quella del rubinetto».

La Casa circondariale di Cosenza conta all'incirca duecentocinquanta detenuti, di cui un centinaio reclusi in regime di alta sicurezza. Tutti gli altri si trovano nella sezione di media sicurezza. Una popolazione carceraria composta da scafisti, rapinatori e spacciatori. Molti sono giovani di vent'anni. «Chi finisce in carcere per reati legati alla droga - riflette don Viktor - nella maggior parte dei casi viene abbandonato dalla propria famiglia. Ci sono genitori che hanno subito violenza e sono stati derubati di tutto e, anche se con dolore, decidono di dire basta».

Nel carcere cosentino manca la figura del mediatore culturale e, al di là delle differenze religiose, don Viktor finisce con l'essere l'unico punto di riferimento: «Gli stranieri sono senza dubbio i detenuti che soffrono di più. Quando arrivano, non conoscono neanche una parola di italiano e mi chiedono di contattare le loro famiglie».

Don Viktor svolge la funzione di cappellano da sei anni. Da due, porta avanti il laboratorio artigianale, grazie al quale i detenuti realizzano braccialetti e bomboniere: «Ho chiesto al direttore del Metropolis di Rende di poter sistemare una piccola bancarella all'interno del centro commerciale e vendere, in cambio di piccole donazioni, gli oggetti prodotti in carcere».

Dopo tre anni trascorsi dentro a una cella, ieri un detenuto ha lasciato la casa circondariale di Cosenza. Don Viktor lo ha abbracciato e gli ha detto: «Non tornare più».

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