L’intervista

L’ex direttore de I Calabresi: «Il giornale torna online ma senza di me, vi spiego perché mi hanno cacciato»

Parla il giornalista Franco Pellegrini che punta il dito contro «i poteri forti che non sopportano la stampa libera e impediscono a questa regione di crescere»

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di Enrico De Girolamo
17 settembre 2022
13:55
Franco Pellegrini
Franco Pellegrini

«E allora? Quell’intervista la facciamo o no?». Ha voglia di parlare Franco Pellegrini, primo e (per ora) ultimo direttore de I Calabresi, giornale online edito da una Srl, la Calavria, controllata al cento per cento dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani Onlus di Cosenza, che, nei fatti, è il vero editore del giornale.

I Calabresi è stata una meteora che ha brillato nel panorama editoriale della regione per un anno esatto, da luglio 2021 allo stesso mese di quest’anno, quando le pubblicazioni sono state sospese.
Inchieste toste, articoli di qualità, firme prestigiose, belle foto e qualche scoop. Un giornalismo col passo cadenzato e sicuro dei vecchi settimanali d’inchiesta, quelli dove un pezzo poteva riempire anche 10 pagine. Un’anomalia per il web, dove tutto viene cotto, mangiato e digerito nello spazio di uno scrolling.


Eppure, andava forte, «con 2,4 milioni di letture in un anno e - precisa Pellegrini - con un valore di mercato della testata che in 12 mesi ha raggiunto i 240mila euro, dai 20mila euro iniziali di capitale sociale». «Non lo dico io – aggiunge -, ma un’economista di fama internazionale, il professore Pietro Spirito».

Settantasei anni, un passato ai vertici della comunicazione di Ferrovie dello Stato e Sip (la vecchia Telecom), tre volte direttore in altrettanti giornali, Pellegrini è uno che non le manda a dire. Fumantino, ostentatamente autentico, allergico alla tecnologia («In un giornale online non so neppure impaginare un articolo»), ma soprattutto con la fama di non guardare in faccia a nessuno.

Ti hanno cacciato per questo?
«I veri poteri forti non possono consentire che un giornale faccia onestamente il proprio mestiere».

Non è che la stai mettendo troppo sul personale? I direttori vanno e vengono. Magari I Calabresi costava troppo. Nell’ambiente giornalistico si parla di compensi molto alti rispetto alla media, a partire da 180 euro a pezzo. 
«Sì, lo confermo. Un articolo veniva pagato dai 150 ai 200 euro. Ma erano tutti pezzi di qualità, inchieste serie, non due righe in croce. I giornalisti fissi a contratto erano solo tre, Camillo Giuliani, Alfonso Bombini e Saverio Paletta, fondamentali perché senza di loro il giornale non si sarebbe potuto fare. In un anno il valore commerciale della testata si è decuplicato e i conti erano in ordine».

A quanto ammontava il vostro budget annuale?
«A 160mila euro, e non è stato sforato. L’unica spesa extra budget è stata quella di 30mila euro per la promozione sui social, indispensabile nel primo anno di attività di una nuova testata. Ma le spese vive del giornale sono rimaste nella previsione iniziale. Inoltre, entro la fine dell’anno, con il consolidamento del numero di lettori, sarebbe partita la raccolta pubblicitaria. Passati 18 mesi dalla nascita del giornale avremmo avuto anche titolo per accedere ai finanziamenti pubblici previsti per la stampa online».

Insomma, tutto a gonfie vele ma ti hanno licenziato lo stesso e hanno fermato le pubblicazioni. Spiega meglio…
«Prima del mio licenziamento, c’è stato un passaggio intermedio: una presa di potere della fondazione “editrice” di cui ero presidente. Una manovra ispirata dall’esterno, ne sono certo. I membri del Cda si sono dimessi e io sono decaduto dalla carica di presidente. Poi, una volta che sono stato tolto di mezzo, il Cda si è ricostituito con gli stessi membri e ha nominato un nuovo presidente. Infine mi hanno licenziato anche come direttore».

Quanto guadagnavi per dirigere I Calabresi?
«Solo una cifra quasi simbolica, 5mila euro lordi annui, importo minimo per fare scattare le coperture assicurative».

E allora qual era la tua motivazione principale?
«Sono convinto che in Calabria non ci sia una pubblica opinione perché non c’è sufficiente informazione libera che possa consentirle di formarsi. Noi siamo partiti dicendo che volevamo rompere questo clima di omertà e disinformazione, questa cappa di potere che impedisce alla Calabria di crescere davvero. Questa è la mia motivazione».

Hanno vinto loro?
«Assolutamente no. Sono già impegnato su tre fronti legali e sono certo che alla fine la manovra del Consiglio di amministrazione verrà configurata come abuso di diritto, perché hanno fatto cadere il Cda con il solo obiettivo di estromettermi, e questo non si può fare. Confido che gli atti con cui è nato il nuovo consiglio vengano annullati. Poi chiamerò ogni singolo consigliere a rispondere del danno patrimoniale che, a mio parere, ha causato, facendo chiudere un giornale in salute che rappresentava un asset positivo della fondazione. Infine, attraverso una causa di lavoro, chiederò che mi vengano liquidate tutte le somme che non mi sono state erogate in questi ultimi 10 anni come direttore e presidente della fondazione».

Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Le prime avvisaglie ci sono state quando a maggio abbiamo intervistato il vescovo di Cassano, Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana per l’Area meridionale. Savino è stato chiarissimo, parlando di una Calabria non libera perché non è davvero consapevole del giogo della politica che baratta promesse di lavoro con i voti, del giogo della massoneria, della sanità privata che uccide quella pubblica. Poi c’è stata un’inchiesta su Cirò Marina che ha dato molto fastidio e infine sono arrivate le elezioni a completare il quadro. A qual punto il blocco di potere che domina la Calabria, e Cosenza in particolare, ha detto basta. I Calabresi doveva essere messo a tacere per non disturbare la campagna elettorale».

Eppure si parla di una ripresa imminente delle pubblicazioni…
«A quanto mi risulta c’è già l’accordo con i tre redattori a contratto, ai quali la testata sarà ceduta gratuitamente. Il budget a disposizione sarà di 100mila euro l’anno. L’unica condizione posta dalla fondazione è che io non venga richiamato in alcun modo».

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