Se le istituzioni fossero romanzi, i rapporti tra i Papi e i Presidenti della Repubblica sarebbero la parte più umana e affascinante del racconto. Quella dove il potere si fa carne, si tocca, ride, si scrive lettere, sale in montagna, si commuove. Dove gli abbracci non sono cerimoniali, ma veri. Dove la laicità incontra la fede, non per farsi guerra, ma per parlarsi. Per provare a capirsi.

Il precedente più iconico e caloroso è quello tra Sandro Pertini e Giovanni Paolo II. Due uomini diversissimi per vocazione e percorso, eppure legati da un’affinità profonda. Il vecchio partigiano socialista e il giovane Papa polacco si incontrano nel 1978 e, da allora, la loro intesa va oltre ogni convenzione. Si telefonano, si scrivono, si vedono fuori protocollo. Addirittura fuggono dai rispettivi palazzi per una gita sull’Adamello, come due amici che decidono di disertare la scuola. «Presidente, venga a sciare con me», propone il Papa. «Santità, non so sciare». «Venga lo stesso, l’aria buona le farà bene». E tre giorni dopo sono là, a tremila metri, con Pertini che guarda Wojtyla sfrecciare e urla: «Ma lei volteggia come una rondine!».

L’aneddoto, riportato nei diari del Quirinale, non è folklore. È la fotografia di un legame che ha saputo diventare simbolo. In pubblico si chiamano per nome, in privato si scrivono con accenti che sembrano usciti da un film di Elio Petri. A Pasqua del 1983, è il presidente ateo a scrivere per primo: «Santità, sia pace all’animo suo, sempre proteso verso quanti soffrono. Non servi in ginocchio siano, ma uomini liberi, padroni dei propri pensieri e dei propri sentimenti». Wojtyla risponde con commozione, ringraziando per «la sincera amicizia» e per quella «nobiltà d’animo» che sa parlare al cuore dei popoli.

Sono due autorità morali. Si sono raccontati le rispettive vite: la fabbrica e la clandestinità, la fede e l’antifascismo, le carceri e la vocazione. Hanno discusso di Solidarnosc, dell’Ostpolitik, dell’Est sotto il tallone sovietico. E si sono trovati a combattere – ognuno a modo suo – la tentazione del silenzio, l’assuefazione alla violenza, il cinismo politico. Non è un caso se ancora oggi, a distanza di decenni, sono percepiti come icone del Novecento. Il Papa che veniva da Cracovia e il presidente che veniva dalla galera. Uniti dalla stessa ostinazione: fare del potere una forma di servizio.

Dopo di loro, altri rapporti tra Papi e Presidenti si sono succeduti, con toni più sobri, mai indifferenti. Ciampi e Wojtyla, Napolitano e Ratzinger, Scalfaro e Benedetto XVI. Incontri di grande rispetto, improntati alla cordialità istituzionale. Ma senza la corrente emotiva che aveva elettrizzato il binomio Pertini-Wojtyla.

Papa Francesco e Mattarella

Finché, nell’ultimo decennio, è arrivata un’altra stagione luminosa: quella tra Papa Francesco e Sergio Mattarella. Due figure che, pur nella diversità dei ruoli, sembrano riflettere l’una nell’altra. Il Pontefice venuto “dalla fine del mondo”, figlio della pampa e della povertà, e il presidente che ha fatto della sobrietà la cifra della sua presenza. Si sono trovati. Si sono capiti.

I loro discorsi – quelli di Capodanno e quelli dell’Angelus – hanno spesso suonato come due voci diverse dello stesso pensiero. La lotta alle diseguaglianze, la tutela dei migranti, l’attenzione per i giovani disorientati, la condanna della violenza contro le donne, l’allarme per l’uso distorto della tecnologia. Il diritto al futuro, come lo chiama Mattarella. La globalizzazione dell’indifferenza, come la denuncia Francesco.

Il Papa argentino e il Presidente siciliano hanno saputo incarnare una nuova forma di convergenza culturale tra istituzioni. Non nella confusione dei ruoli, ma nella limpidezza dei valori. Francesco non è stato solo ricevuto al Quirinale il 10 giugno 2017: è sembrato a casa sua. Così come Mattarella, nel varcare le porte del Vaticano, non ha mai avuto il passo del semplice ospite, ma quello del fratello in dialogo.

Non è solo amicizia, è un’alleanza morale, una sponda reciproca in un tempo di solitudini. I loro dieci anni di interazione – iniziati il 18 aprile 2015 con la visita ufficiale del presidente oltre Tevere – sono stati costellati di messaggi condivisi, abbracci sinceri, colloqui privati e gesti pubblici di rara intensità. Quando Francesco è morto, Mattarella ha usato parole che andavano oltre la prassi istituzionale. Ne ha riconosciuto la statura, ma anche la delicatezza, la pietas, la coerenza.

Un legame così saldo da far dire a qualcuno, scherzando ma non troppo, che avrebbero potuto scambiarsi i ruoli: Mattarella al Soglio di Pietro, Francesco al Colle. Il primo ha una figura da Papa, il secondo un cuore da Presidente.

Nessuna delle precedenti coppie – nemmeno quelle storiche – aveva raggiunto un tale grado di sintonia. E in effetti, mai prima d’ora la Chiesa e lo Stato italiano avevano viaggiato con passo così simile, senza perdere la propria autonomia. È una consonanza che ha radici profonde: la Costituzione e il Vangelo si sono specchiati, senza invadere i rispettivi territori, nel nome della pace, della dignità, della giustizia. Un modello che resta unico nel panorama globale, mentre altrove – dalla Russia alla Cina – fede e potere si ignorano o si combattono.

E se oggi guardiamo indietro, possiamo raccontare questa storia anche con le date. Il primo gesto di apertura dopo la lunga frattura della “questione romana” arriva il 7 giugno 1929, quando, a pochi mesi dalla firma dei Patti Lateranensi, re Vittorio Emanuele III e la regina Elena si recano in Vaticano per incontrare Pio XI. Un incontro storico, che suggella simbolicamente la riconciliazione tra Stato e Chiesa dopo la frattura del 1870. Il Papa, però, non restituirà direttamente la visita: a rappresentarlo al Quirinale sarà il cardinale Pietro Gasparri, suo Segretario di Stato.

Bisogna attendere il 28 dicembre 1939 per la svolta successiva. Appena eletto, Papa Pio XII – il cardinale Eugenio Pacelli – ricambia formalmente la visita al Quirinale del re, compiuta sette giorni prima. È il primo Pontefice a mettere piede nel palazzo del potere laico dopo la breccia di Porta Pia. Mussolini, che pure governa l’Italia con pugno di ferro, non sarà presente. Ma la portata del gesto è enorme. In piena Seconda guerra mondiale, quella stretta di mano è un segnale.

Poi arriva la Repubblica. Ed è Giovanni XXIII, il 11 maggio 1963, il primo Papa a visitare un Presidente italiano, Antonio Segni. Da lì, si apre una stagione di incontri e di reciproca attenzione: Paolo VI visita Segni nel 1964 e Giuseppe Saragat nel 1966, in un’Italia che cerca di dare volto moderno al proprio equilibrio tra potere civile e spirituale.

Ma la vera intensità si raggiunge, come detto, con Giovanni Paolo II e Sandro Pertini, che si vedono non solo il 2 giugno 1984, ma anche in numerosi incontri privati e informali. Wojtyla continuerà il suo dialogo con i successori: Cossiga nel 1985, Scalfaro nel 1998, Ciampi nel 2002 e nel 2005, sempre al Quirinale, in momenti segnati da grande rispetto e affetto istituzionale.

Benedetto XVI incontrerà Ciampi e Napolitano, nel 2008. E nel 2013, pochi mesi dopo la sua elezione, sarà Papa Francesco a recarsi al Quirinale per incontrare Napolitano, il primo presidente a riceverlo. Seguiranno i dieci anni intensi con Sergio Mattarella, culminati nella visita ufficiale del 10 giugno 2017, una tappa di un itinerario fatto di sintonie mai scontate, di un rapporto cresciuto nella concretezza della parola “pace”.

Così, da Vittorio Emanuele III a Sergio Mattarella, passando per re in divisa, presidenti filosofi, Pontefici mistici o gesuiti d’azione, la storia tra Quirinale e Vaticano si è fatta traiettoria, non collisione. Un arco teso tra due colline romane – il Gianicolo e il colle del Quirinale – che un tempo si fronteggiavano in silenzio e oggi si parlano con rispetto, talvolta con affetto, perfino con tenerezza.

Non più scomuniche né diffidenze, ma alleanze morali, costruite nel nome di chi soffre, di chi cerca giustizia, di chi reclama un domani più umano. Oggi come ieri, il potere laico e quello spirituale si toccano senza confondersi, si osservano senza giudicarsi, si aiutano senza imporsi. E quando questo accade – quando il Presidente e il Papa riescono a parlare la stessa lingua pur usando parole diverse – l’Italia si riconosce. Forse più di quanto riesca a fare in Parlamento, in piazza o in televisione.

Perché in quel gesto antico di stringersi la mano tra le pareti del Quirinale o nelle sale vaticane, non c’è solo protocollo. C’è il riflesso di un Paese che ancora, tra mille contraddizioni, cerca un’anima. E quando la trova – in un abbraccio, in una lettera, in uno scambio di auguri pasquali – sa ancora emozionarsi. E ricordare, magari, che essere Stato e Chiesa significa prima di tutto essere umani.