Dalle borgate romane al lager di Mauthausen, dalle montagne del Nord ai moti bruzi: i racconti dei settemila calabresi che hanno combattuto la guerra contro i nazifascisti
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Per un periodo, la Calabria ha rappresentato il principale teatro delle operazioni belliche della Seconda guerra mondiale. Dalle gesta del leggendario Gobbo di Gerace all’insurrezione di Cosenza, dalle prime formazioni partigiane al sacrificio del calciatore-pilota Mario Martire a Mauthausen: ecco le storie dimenticate di oltre settemila calabresi che hanno combattuto nella Resistenza e contribuito alla liberazione d’Italia.
Il Gobbo di Gerace
Il contributo della Calabria alla Liberazione ha inizio nel 1943, nel momento in cui l’esercito italiano e il Paese erano in ginocchio dopo tre anni di guerra, preparati solo nei tronfi proclami del duce e dei suoi gerarchi. Il 10 luglio lo sbarco alleato in Sicilia produceva il crollo del fronte interno. Gli anglo-americani venivano accolti dai cittadini come dei liberatori.
Nella riunione del 24 luglio il Gran consiglio votava a maggioranza un ordine del giorno che sfiduciò Mussolini. Era la cancellazione del fascismo. Il giorno dopo non si trovava un fascista neanche a cercarlo tra le camicie nere. Neanche due mesi dopo, l’armistizio viene firmato a Cassibile, una frazione di Siracusa. L’annuncio ufficiale dell’8 settembre coglie di sorpresa generali e soldati. La fuga del re e il disfacimento del Regio Esercito sanciscono la mancata difesa di Roma. I cittadini si oppongono ai tedeschi come possono. La Battaglia di Porta San Paolo segna l’atto di nascita della Resistenza italiana.
Il calabrese Giuseppe Albano, detto ‘Il Gobbo del Quarticciolo’ per una cifosi malcurata dopo una caduta da bambino tra i boschi di Gerace, è tra i protagonisti. Albano partecipa a numerose operazioni di sabotaggio, fa deragliare treni, assalta forni e distribuisce farina alla popolazione affamata. Causa la morte di oltre ottanta tedeschi. I nazisti gli danno la caccia, ma non lo trovano. Sulla sua testa grava una taglia di un milione e mezzo di lire. È introvabile. Si nasconde tra le viuzze di borgata, cambia rifugio ogni notte e dorme negli androni dei palazzi di Centocelle. Quelle strade le conosce come il palmo delle sue mani, perché dieci anni prima si è trasferito a Roma da Gerace.
Inoltre, è protetto dalla banda capeggiata da un suo corregionale, Franco Napoli. Dove non arrivano i tentacoli dei nazisti, la denuncia dei fuggiaschi è affidata ai crudeli delatori. I cacciatori di ebrei e sovversivi al soldo dei nazisti sono tanti. Uno dei più temuti è il famoso ciclista Fiorenzo Magni. Il nostro Giuseppe finisce nella sua trappola.
Arrestato, riesce prima a fuggire al patibolo per poi diventare vittima di un conflitto a fuoco con i carabinieri in circostanze sospette e mai del tutto chiarite. Diventerà una figura leggendaria della resistenza romana.
Anni dopo, il regista Carlo Lizzani gli dedicherà il film Il Gobbo. Nel ruolo del partigiano calabrese, l’attore parigino Gérard Blain. Nel film avrà il nome Alvaro Cosenza, per ricordare le origini calabresi del personaggio da lui interpretato.
Cosenza insorge
Mentre il re e il nuovo capo del governo, Badoglio, cercano di mettersi al sicuro, nel settembre del 1943 gli Alleati sbarcano a Reggio Calabria. È scattata l’Operazione Baytown.
Le truppe angloamericane rispondono al generale Montgomery. La Calabria diventa il principale teatro delle operazioni belliche della Seconda guerra mondiale. Numerosi bombardamenti hanno preceduto lo sbarco alleato. I cittadini di Reggio, Catanzaro, Gioia Tauro e Cosenza hanno visto cadere sulle proprie teste una pioggia di bombe sganciate dai B-17 e dai B-24. La tensione è alle stelle.
Nella città di Cosenza, i Carabinieri strappano alcuni manifesti che inneggiano a Churchill, a Stalin e Roosevelt. Qualcuno gli fa notare con sgarbo che, dopo l’8 settembre, siamo alleati degli angloamericani. Gli ufficiali in divisa non gradiscono e scattano le manette. I cosentini non ci stanno e seguono il dissidente in catene fino al palazzo della Prefettura, presieduto dal cagliaritano Enrico Endrich.
È un fascista della prima ora. In gioventù ha sfidato a duello (con la sciabola) Emilio Lussu e si vanta di essere un esperto d’arte. Entrati nel suo ufficio, uno dei capi dei rivoltosi (il comunista Gennaro Sarcone) afferra un quadro con un ritratto di Mussolini e glielo spacca in testa. Dopodiché Endrich è costretto alla fuga insieme ai suoi sodali.
Cosenza insorge. I cosentini vengono esortati alla calma dal balcone. «Non invito alla vendetta, ma alla consapevolezza dei compiti nuovi nella giustizia e nella libertà». A parlare è Fausto Gullo, punto di riferimento dell’antifascismo cosentino. La popolazione lo investe della carica di Prefetto. Il comandante dei Carabinieri, sull’attenti, dice che aspetta solo i suoi ordini. Quella che Gullo ricorderà come «l’ora più rivoluzionaria della mia vita» dura poco.
Gli Alleati gli preferiscono Pietro Mancini. Ma Fausto sarà ricordato come il ‘Ministro dei contadini’ – soprannome derivato dalla sua riforma agraria – e come il primo a proporre l’istituzione dell’Assemblea Costituente.
Il partigiano Frico
Alla fine del 1943, l’Italia è spaccata in due. Miseria e disperazione sono identiche dappertutto, ma nel Regno del Sud inizia un lento ritorno alla normalità sotto il controllo degli angloamericani. I partiti rinascono, la democrazia rifiorisce al riparo dai rastrellamenti che, invece, angosciano le regioni da Roma in su, sotto il tacco nazista.
Alcuni calabresi manifestano la volontà di impegnarsi nella lotta armata sull’impeto dell’insurrezione cosentina. Si riuniscono a casa di Pietro Mancini per decidere quali gerarchi fascisti passare per le armi. Del resto, coincidenza vuole che la città abbia dato i natali a due vertici del Partito: Michele Bianchi (Belmonte Calabro), primo segretario generale, e Carlo Scorza (Paola), l’ultimo, considerato da Mussolini «il più adatto a rigalvanizzare le sorti del Partito».
Tutto ciò accadeva mentre i vigliacchi d’alto bordo approdavano con la corvetta Baionetta a Brindisi; la divisione Acqui a Cefalonia tentava di respingere l’ultimatum della Wehrmacht ad arrendersi e consegnare le armi; e al Nord si formavano le prime formazioni partigiane con l’obiettivo dichiarato di «abbreviare la guerra».
Circa settemila calabresi ne faranno parte. Anche il catanzarese Federico Tallarico nel 1943 decide di imbracciare le armi. Entra nella Divisione autonoma “Sergio De Vitis” con il nome in codice di ‘partigiano Frico’. Diventerà uno dei comandanti calabresi più influenti della Resistenza. Accanto a lui combattono i fratelli Nicoletta da Crotone, Giulio e Franco. Verranno arrestati a Torino, accusati di aver impedito l’entrata in città delle truppe naziste del generale Hans Schlemmer. Il giorno dopo, Tallarico e i due Nicoletta vengono sottoposti a un duro interrogatorio. I tedeschi pretendono i nomi e i nascondigli degli altri. Rispondono che preferiscono morire, anziché tradire i compagni. I fucili li attendono.
Poi, però, l’alto comando li considera utili per un eventuale scambio di prigi onieri. Usciti di prigione, nel maggio del 1945 guideranno il corteo della Torino liberata.Un caffè con Agnelli
Dopo l’Operazione Quercia e la liberazione sul Gran Sasso, Mussolini accetta di diventare uno strumento di Hitler. Nel settembre 1943 fonda la Repubblica Sociale Italiana, uno Stato-fantoccio a disposizione dell’occupante tedesco per coadiuvarlo nel saccheggio di quel poco che non è rimasto sepolto sotto le macerie.
La Repubblica di Salò, il paesino sul Garda che ne diviene la spettrale capitale, arruola un esercito di volontari, il cui unico compito è di collaborare con i tedeschi nella repressione delle forze partigiane. Al suo interno operano sotto copertura anche diversi membri della Resistenza, tra cui Francesco Vallelonga di Nardodipace (VV), detto ‘Fanfulla’, che agisce come cuoco. Quando una sera gli ordinano di portare in tavola il vin brulè, capisce che è il segnale della retata contro i suoi compagni. In maniera rocambolesca, riesce a far uscire le informazioni segrete, salvando la vita a migliaia di partigiani.
Grazie al suo aiuto, si salva anche il concittadino Domenico Mazzitelli, noto come il partigiano “Rosina”. Già sopravvissuto alla disastrosa Campagna di Russia, si fingerà repubblichino come Vallelonga per poi fuggire a combattere lassù in montagna.
Anche Carmine Fusca, membro valoroso della Brigata Garibaldi, ha un destino simile. È originario di Limbadi, come l’Amaro del Capo. A novembre alla sua unità viene assegnato il compito di proteggere i rampolli della famiglia Agnelli. Gianni e la crocerossina Susanna devono raggiungere la tenuta di famiglia in Toscana. «Era un galantuomo», racconterà Fusca, «una persona squisita. Ci trovammo col comandante a casa sua. Ci fece il caffè con le sue mani! Mi sembrò una cosa strana vedere un uomo come lui alle prese con una macchinetta del caffè, nonostante fosse circondato da diversi uomini del suo personale di servizio».
Il mediano di Mauthausen
Nel 1933, i tifosi del Cosenza calcio sulle paginette de «I Lupi della Sila» leggono: «Chissu è Maruzzu Martire, lupacchiu de razza bona e de li cchiù veraci! A postu sempre, mai te fa nnu nquacchiu, chissu è nnu lupacchiellu de Paraci!». I versi sono del poeta-avvocato Michele De Marco, mentre la vignetta del calciatore Mario Martire è affidata all’abile caricaturista Peppino Baratta, che da Cosenza presta la sua matita anche al «Corriere dello Sport», stampato a Bologna.
De Marco trascorre le giornate all’antico Caffè Renzelli, dove, tra una varchiglia e un cordiale, riceve alcuni protagonisti della città per discutere di politica, giornalismo e naturalmente del Cosenza, di cui è gran tifoso. Da quando i fascisti hanno fermato le rotative del suo giornale satirico «L’Ohé», ritenuto pericoloso e sovversivo, ha rifiutato di prendere la tessera del partito e chiuso a chiave il suo studio legale. È conosciuto con il nome d’arte ‘Ciardullo’, preso in prestito da una guardia comunale di Pedace, lo stesso paese di Paolo Cappello, prima vittima calabrese del fascismo, assassinato a colpi di rivoltella nel 1924.
Ma in quei giorni al Renzelli si parla solo del Cosenza, mai così vicino alla promozione in Serie B. Gran parte del merito è proprio del centrocampista Martire e del mediano torinese Vittorio Staccione. I due funamboli dei rossoblù legheranno presto le proprie carriere e i propri destini alla guerra imminente. Si ritroveranno nel 1945, mentre in Italia infuria la guerra civile.
Mario Martire, ora pilota di aerei da combattimento, si è disperso con la sua squadriglia in seguito al marasma generato dall’armistizio dell’8 settembre. Nel 1944, da Novara raggiunge a piedi la sorella a Venezia. Qui decide di unirsi alla lotta partigiana, «con la serena certezza di combattere fino all’ultimo spasimo per l’onore e la dignità mia, vostra e dell’Italia», come si legge dalla sua ultima lettera indirizzata ai familiari in Calabria.
In Veneto sfrutta le sue capacità di pilota e, d’intesa con il Comando Alleato clandestino, organizza un provvidenziale servizio aereo di rifornimenti per i gruppi di resistenza montana. Diventa un eroe. Ma nel 1945 viene catturato nei pressi di Bolzano e deportato nel lager di Mauthausen. Morirà per un’iniezione di benzina. Anche il suo ex compagno di squadra, Vittorio Staccione, è finito nello stesso lager.
Gli sportivi nei campi di sterminio fanno la vita di tutti gli altri detenuti. I capelli rasati, la violenza delle SS e la lotta per la sopravvivenza. Giornate di lavori forzati che iniziano presto e non finiscono mai. Uno strazio. Marciano con i piedi nella neve e indossano sudici pigiami a righe. Troppo sottili per il freddo atroce degli inverni austriaci. La prestanza fisica di Staccione è paradossalmente una condanna. Il corpo continua a essere più forte di ogni cosa: del dolore, della solitudine e della disperazione.
Persino sotto quella cappa continua di sofferenze e brutalità, il pallone continua a rimbalzare. Non lontano dalle camere a gas, talvolta i prigionieri sono costretti dalle guardie a giocare a calcio. Per loro si tratta di piccoli momenti di sollievo e sopravvivenza. Come racconta Francesco Veltri, nel bel libro Il mediano di Mauthausen, un giorno Staccione si presenta in campo con una vistosa ferita, forse inferta da una sadica guardia, forse procurata in campo proprio durante una delle tante partite della morte. Fatto sta che finisce in infermeria. Dal momento che non può più giocare, né intrattenere i suoi aguzzini, da quell’inferno non uscirà mai più.
Roma città aperta
Nel 1944, la popolazione e il Paese sono a pezzi. Non c’è famiglia che non abbia avuto almeno un lutto. Le rappresaglie dei nazisti sono state sanguinarie: le stragi di civili inermi perpetrate alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, alla Risiera di San Sabba sono stazioni della via crucis del dolore.
Intanto, a Roma, il regista Roberto Rossellini e gli sceneggiatori Sergio Amidei e Alberto Consiglio si incontrano ogni giorno in una trattoria del centro per discutere la genesi di un film ambientato in quei giorni tremendi. Quasi una presa diretta della tragica cronaca quotidiana. Il titolo: Roma città aperta.
Un giorno si presenta un giovane autore esordiente di Rimini, Federico Fellini. Rossellini ha fiducia in lui e spinge affinché entri nel gruppo di autori. Amidei e Consiglio nicchiano, anche perché il giovane si dice contrario alla lotta partigiana, convinto che la disfatta dei nazisti sia ormai prossima. Ciò nonostante, sarà proprio lui a portare sul tavolo l’ispirazione del personaggio della sora Pina, poi interpretato da Anna Magnani.
Fellini racconta ai compagni che è inciampato nella tragica storia di una donna uccisa dai tedeschi mentre cercava di dire addio al marito condannato ai lavori forzati in un campo di concentramento. La storia di Anna Magnani nel film e la fucilazione in strada mentre corre urlando «Francesco, Francesco!» sono ispirate a una calabrese: Teresa Gullace di Cittanova.
Teresa, nata e vissuta nella provincia di Reggio Calabria, si trasferì a Roma ed ebbe cinque figli. Era incinta del sesto quando si ritrovò davanti alla caserma dei Carabinieri di viale Giulio Cesare, nel tentativo di salutare per l’ultima volta il suo Girolamo. Lui, con le mani aggrappate alle grate, proverà a urlarle di scappare, perché aveva visto la guardia tedesca con il fucile pronto a sparare. Lei però non ascoltò il suo avvertimento, sfidando il divieto, e cadde sotto i colpi fatali di uno Sturmgewehr.
Nel 1977, riceverà la Medaglia d’oro al merito civile alla Memoria e nel 1995 il suo volto finirà su un francobollo commemorativo delle donne più rappresentative della seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni, una targa di cemento è stata murata in viale Giulio Cesare, a eterna memoria di quella drammatica giornata. «Teresa Gullace alla soglia d’una nuova maternità, il 3 marzo 1944 fu qui barbaramente uccisa da un soldato tedesco mentre invocava e confortava il marito razziato dalla sbirraglia nazifascista. Il suo nome simbolo dell’eroica resistenza romana l’Unione Donne Italiane con fiero orgoglio ricorda».
Tre mesi dopo la morte di Teresa, il 4 giugno 1944 Roma veniva liberata dagli alleati. Due giorni dopo 287.000 soldati, 10.000 aerei e centinaia di navi, partiti dall’Inghilterra, assaltavano le spiagge della Normandia, sfondando il vallo atlantico di Hitler. Dopo undici mesi, il 25 aprile 1945 l’ingresso a Milano dei partigiani annunciava la fine della guerra in Italia.
Tutti a casa
La Resistenza calabrese non è stata un’appendice marginale, ma una componente vitale della lotta di Liberazione. Da Gerace a Roma, dalle montagne del Nord ai lager nazisti, i calabresi hanno lasciato impronte indelebili di coraggio. Le vicende che abbiamo ricordato, non sono trafiletti della grande Storia, ma capitoli essenziali del racconto della Liberazione. Riportarle alla luce significa correggere una narrazione troppo spesso sbilanciata verso il Nord, restituendo al Mezzogiorno il posto che merita nella costruzione dell’Italia democratica.
La memoria della Resistenza calabrese è una risorsa viva: ci ricorda che la democrazia è nata anche da queste terre aspre, dalla tenacia di uomini e donne che seppero schierarsi dalla parte giusta quando era più difficile e rischioso farlo. Significa riconoscere che anche la Calabria ha avuto i suoi eroi, le sue battaglie, il suo tributo di sangue alla causa della libertà. Il 25 aprile appartiene a tutta l’Italia. Anche a quella che, in silenzio, ha resistito.