Incontriamo l’avvocato Giovanna Russo, la prima donna in Calabria ad essere nominata Garante dei diritti dei privati della libertà personale. Il Consiglio regionale undici mesi fa l’ha scelta all’unanimità e Lei ai nostri microfoni dice che questa responsabilità se la sente tutta e sottolinea come il suo maggior impegno è donare credibilità a questa istituzione con rigore e diligenza per la tutela dei diritti umani e il necessario contrasto alle mafie che in Calabria comprimono lo stato di diritto, soprattutto in ambito penitenziario.

Coraggioso studio e carico di responsabilità per una cultura dell’antimafia penitenziaria che restituisce autorevolezza a un ruolo spesso violato, quello appunto delle Autorità Indipendenti per mancanza di cultura e sensibilità di altre istituzioni ma anche per le modalità operative che secondo la stessa ‘ devono subire un processo di armonizzazione e omogeneità su tutto il territorio e tra regioni. In questo la Calabria sta già lavorando da mesi. Non è volontariato ed è arrivato il momento che alcuni comprendano che l’indifferenza alimenta le spinte criminali che ledono e possono intaccare il fondamentale operato di garanzia dei diritti che queste figure assolvono con tutti i rischi che questo ruolo comporto.

Lei ci mette la faccia e dice che «nessuna donna delle istituzioni civili, militari e religiose va lasciata sola o, peggio, isolata perché non solo sarebbe un errore madornale, ma si avallerebbero tutti quei comportamenti criminali che emarginano chi invece la criminalità vuole quotidianamente contrastarla con la cultura dei diritti, del bene e del bello, con un’etica del fare coerente e credibile.

Dall’incontro di Mai più sola delle scorse settimane ho colto una reale sensibilità di donne per le donne e sono qui a mettere in luce con la solita schiettezza due aspetti che riguardano le donne del mondo penitenziario. Parlerò di donne che spesso non hanno voce: le donne detenute ma anche le donne della Polizia Penitenziaria. Donne diverse sì, ciascuna nel proprio ruolo, ma che vivono e condividono lo stesso mondo, segnate spesso dallo stesso problema: la parità di genere ancora lontana, la violenza fisica, psicologica, istituzionale, ancora oggi troppo presente e molto taciuta. Vi è una frase di Francesca Morvillo nella quale mi rivedo diceva: «Nel mio piccolo anche io voglio contribuire al cambiamento… io non ho paura…perché ho scoperto l’amore vero per la mia famiglia, il mio lavoro e per il dovere che ogni giorno compio fino alla fine. Sono Francesca, una donna semplice che, come tante altre donne, lotta ogni giorno per una società migliore e più giusta».

‘Doppia invisibilità’: quando essere donna e detenuta significa dissolversi nel contesto sociale. Cosa ne pensa?

«Nel dibattito pubblico si parla molto di carcere in generale e troppo poco nella misura della specificità che questa materia merita, ancora meno di carcere declinato al femminile e questioni di genere. Partendo dalle donne detenute, esse, rappresentano una minoranza numerica rispetto agli uomini (2.777 di cui 71 in Calabria – dati Ministero Giustizia) e questo contribuisce a una forma di c.d. ‘doppia invisibilità. Essendo poche, diventano residuali nelle politiche, nei regolamenti interni, nella distribuzione delle risorse. Eppure, le loro esigenze sono specifiche. Basti pensare alle loro storie di violenze pregresse: moltissime donne detenute hanno alle spalle violenze domestiche, abusi, relazioni di dipendenza economica ed emotiva. Spesso il reato è l’ultimo anello di una catena di vulnerabilità. Al loro ruolo di madri e caregiver: molte sono madri, spesso unica figura di riferimento per i figli. Il carcere, se gestito senza sensibilità, non colpisce solo la donna, ma l’intero nucleo familiare. Alle derive di questi fenomeni appena descritti in termini di salute fisica e mentale: disturbi d’ansia, depressione, disturbi post-traumatici, dipendenze, patologie croniche: l’impatto è diverso, e spesso più grave, nelle donne. La medicina di genere qui praticamente non esiste».

Emerge dalla sua risposta un tema: la questione della violenza di genere in carcere. Dal suo osservatorio di questi anni che riflessioni trae?

«Anche in questo caso dobbiamo ragionare sul tema e affrontarlo e nell’ottica della donna detenuta e in quello della poliziotta. Per una donna detenuta, il tema della violenza non scompare con l’ingresso in istituto, anzi può cambiare forma. Si pensi ai casi di violenza pregressa non riconosciuta: molte donne sono vittime di abusi e arrivano in carcere senza che nessuno abbia mai formalmente riconosciuto prima o per tempo il loro vissuto traumatico. Altro tema doloroso e poco dibattuto con la dovuta serietà scientifica è la violenza istituzionale e simbolica. Quanta assenza di privacy nelle vite di queste donne detenute? Il reato accertato, la colpevolezza, la necessità di custodia cautelare sono forse fatti autorizzativi alla lesione della dignità di una persona? Di una donna, fosse anche detenuta? L’importanza del linguaggio che contrasti il linguaggio sessista, l’arginare le umiliazioni e gli stereotipi quali ‘madre snaturata, cattiva donna’ forse rafforzerebbero gli sforzi trattamentali, rieducativi, contrastando concretamente queste forme di violenza meno visibili ma profondamente lesive. Ulteriore elemento da non sottovalutare è il rischio di molestie o abusi. Al riguardo servono protocolli chiari, controlli, formazione specifica e un equilibrio di genere nel personale, il carcere può diventare un luogo sempre più pericoloso quando dentro le sue stesse mura se non adeguatamente formato alle complessità».

Si legge, con la stessa attenzione che lei usa per le donne detenute che anche le poliziotte benché in prima linea, non sempre hanno tutele adeguate. A che punto siamo?

«Dal ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale non ho mai fatto mistero che per me il ruolo non è quello che per anni ci è stato raccontato. Un Garante deve porre sempre l’attenzione all’Amministrazione non in una mera logica di monitoraggio ispezione e controllo. Un Garante deve saper essere veramente una Istituzione di Garanzia dei diritti. Ma come puoi pensare oggi di garantire i diritti umani se non hai la capacità e la sensibilità di essere accanto, senza ingerenze ovviamente, all’Amministrazione che per mission deve garantire diritti in ottica di umanizzazione della pena. Ecco che rispondo alla sua domanda: dall’altra parte delle sbarre, tra i corridoi, fuori delle salette colloquio, delle salette socialità ogni giorno e in mille necessità della popolazione detenuta, ci sono loro, le donne del corpo di polizia penitenziaria: donne, mamme, mogli, figlie. Anche qui, la parità deve ancora compiere importanti scelte e soprattutto servono percorsi di sensibilizzazione tra e per le donne che scelgono il sigillo della Giustizia per rappresentare lo Stato. Oggi c’è ancora molto da fare. Penso alle disparità quotidiane. Le poliziotte vivono una serie di criticità specifiche: sessismo e stereotipi interni, ambienti storicamente maschili, la presenza femminile viene talvolta vissuta o, peggio, subita: linguaggio inappropriato, messa in discussione dell’autorità, o anche solo il sovraccarico di compiti perché ‘le donne sanno gestire meglio i conflitti’.

Il rischio di burnout e stress post-traumatico. Il carcere è un ambiente ad alta intensità emotiva: suicidi, atti di autolesionismo, aggressioni, insulti quotidiani, chi lavora dentro vive tutto questo sulla propria pelle, ma la cultura del ‘reggere’ e del ‘non lamentarsi’ o, peggio, la paura di essere ritenute inadeguate disincentiva la richiesta di aiuto. Un tema importantissimo è quello della violenza. Anche per le poliziotte il tema della violenza non è solo teorico: Molestie talvolta coperte da omertà interna, paura di ritorsioni, cultura gerarchica, minacce e aggressioni da parte di detenuti refrattari alle norme, aggressioni che possono assumere connotati apertamente sessuali, anche quando non arrivano al contatto fisico, sono solo alcune delle criticità che emergono in ambito penitenziario. Scarsa fiducia nelle tutele: se non esistono canali protetti, indipendenti e credibili per denunciare la violenza rischia di rimanere sommersa. Le derive sono ovvie e pericolose».

Pare di capire, grazie alla sua sensibilità istituzionale che parità di genere e donne che abitano il microcosmo penitenziario a qualsiasi titolo meritano entrambe grande attenzione.

«La condizione delle detenute e delle poliziotte penitenziarie non è un tema ‘di nicchia’ come si potrebbe pensare, essa, riguarda direttamente la qualità della democrazia, lo stato di diritto, la credibilità dello Stato quando parla di diritti umani. Ecco perché il tema della parità di genere in carcere è un tema fondamentale. In ragione del valore che diamo al 25 novembre e perché non sia solo il 25 novembre è opportuno ribadire che la tutela da ogni forma di violenza e discriminazione deve essere attiva, non solo proclamata. Urgono sistemi di prevenzione, protezione, punizione di ogni abuso, anche quando la responsabilità si configura in seno a rappresentanti delle istituzioni; la parità non è mero concetto, la discriminazione e il contrasto ad ogni forma di violenza si costruiscono con la credibilità di quanto le donne in primis riusciranno a mettere in campo con sensibilità e coesione sul terreno delle tutela e dei diritti. Serve agire sul piano della formazione, dell’affettività, per chi vive e anche per chi lavora dentro le mura servendo lo Stato».

Lei da penitenziarista, prima donna in Calabria Garante che vive in questo settore prettamente maschile ha già in mente qualcosa? Ad esempio, secondo lei, cosa si potrebbe fare per le donne detenute?

«Intanto la trasparenza è la migliore alleata contro ogni forma di discriminazione e violenza. Ritengo che si debba cambiare approccio culturale fuori e dentro le mura per avviare una stagione che abbia la visione e la voglia oltre che la progettualità per cambiare il carcere e contrastare ogni forma di violenza. Per rimanere in tema di diritti, tutele, contrasto alla violenza e politiche per una reale parità di genere in carcere – per le donne detenute e per le poliziotte – non è solo una questione di norme e regolamenti è soprattutto una questione di cultura e formazione. La cultura interna alle amministrazioni competenti che a vario livello devono valorizzare sempre più il ruolo delle donne, e non considerarle come un’appendice. Non bisogna aver paura della forza generativa delle donne, aggiungo che bisognerebbe sensibilizzare la cultura politica attorno al carcere smettendo di considerarlo come un luogo ‘altro’, estraneo al perimetro dei diritti umani. Anzi è proprio partendo dalla sensibilità penitenziaria che riusciamo a rendere più sicure le nostre comunità. Infine, investire in cultura sociale. Se il tema della violenza di genere non entra anche dietro le sbarre, resta uno slogan. Portarla davvero dentro le carceri – nei corpi, nelle biografie e nelle carriere delle donne che lì vivono e lavorano è una delle prove più concrete della serietà con cui un Paese considera i diritti umani. È nelle carceri che si misurano i limiti e le contraddizioni del welfare. Per tale ragione ritengo che il format ‘Mai più sola’ possa essere un valido strumento reticolare di giustizia e tutele anche dentro le mura».