L’incontro al Seminario arcivescovile di Reggio Calabria. Il corpo martoriato di un padre e una promessa che non si è mai spezzata: ricordare per non cedere all'oblio
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Era il 3 maggio 1982 quando Gennaro Musella, ingegnere salernitano trasferitosi in Calabria, fu assassinato con un’autobomba a Reggio Calabria. Il boato spezzò la quiete lasciando sull’asfalto i resti di un uomo mite, onesto, scomodo. Aveva denunciato le irregolarità nella gara d’appalto per la costruzione del porto turistico di Bagnara Calabra. Per questo fu ucciso. Per questo, ancora oggi, vive nella memoria ostinata di chi non accetta il silenzio.
«Mi sono ripromessa – ha raccontato la figlia Adriana – davanti a quel corpo ridotto a brandelli, che non avrei mai smesso di ricordare quella barbarie. La mortificazione del corpo di mio padre è qualcosa che non ho mai accettato. E penso, come figlia, di avere assolto al mio compito. Ho fatto tutto quello che potevo». La sua onestà ha fermato un affare sporco, e questo è bastato per condannarlo a morte. Un dolore che, 43 anni dopo, è ancora vivo negli occhi lucidi della figlia. «Sono 43 anni che non ho mai smesso di ricordare mio padre. Non ho saltato un anno. La memoria è un riscatto per queste morti ingiuste. Se qualcuno continua a vivere nella coscienza della gente, non muore».
La mafia non è solo criminalità organizzata per Adriana Musella, ma un vero e proprio «modo di essere. Mio padre si è ribellato alla sopraffazione. È rimasto un uomo libero. E ha aiutato molte persone, anche dopo la sua morte, a trovare il coraggio di denunciare».
Nel giorno dell’anniversario, il gruppo di lettura “Viaggi tra le righe” si è riunito presso il Seminario Arcivescovile di Reggio ed ha dedicato la propria sessione a “Vittima di mafia. Nome comune di persona”, scritto da Salvatore Ulisse Di Palma con la collaborazione di Adriana Musella e la prefazione del presidente Pietro Grasso.
«La memoria si costruisce anche attraverso il racconto – ha spiegato la coordinatrice Francesca De Stefano –. Ogni tanto è importante passare dalla parola scritta, per non perdere fatti importanti per la nostra storia. Abbiamo scelto questo libro per ricordare una storia vera, una storia che ci appartiene. Quella di un uomo, di una famiglia, di una città».
Una città che non può e non deve dimenticare. «Spesso – ha proseguito - quando si parla di stragi di mafia, si pensa solo a quelle siciliane. Si dimentica quanto è accaduto qui. Anche qui ci sono state stragi. Anche qui ci sono stati uomini uccisi per la loro integrità. Ed è importante ricordarlo». L’incontro ha previsto letture, riflessioni condivise, testimonianze. A chiudere la giornata, una concelebrazione presieduta da don Simone Vittorio Gatto, per riportare nel gesto collettivo il senso profondo dell’essere lì: ritrovarsi insieme intorno a un nome, per non lasciarlo solo.
Musella è oggi riconosciuto come vittima innocente di mafia. Il suo nome è stato inserito nell’archivio ufficiale del Ministero della Cultura dedicato alla memoria civile. Ma per decenni il suo volto è rimasto ai margini della coscienza pubblica, sepolto dal silenzio.
La figlia Adriana, oggi, parla ai ragazzi. Li guarda negli occhi. Racconta. Non per fare educazione civica, ma per condividere un pezzo di storia che difficilmente troveranno nei manuali scolastici. «I giovani non sono anaffettivi – ha raccontato –. Capiscono quando un messaggio è autentico e quando invece è costruito. Anche questa parola, “legalità”, è diventata troppo abusata. Troppo declamata. I ragazzi lo avvertono, lo capiscono. Per questo credo che ascoltino, se ciò che sentono è vero. A scuola queste cose magari non le apprendono. Ma è importantissimo che le conoscano».
Poi, l’accusa più netta. La solitudine di chi denuncia. Il silenzio delle istituzioni. «Lo Stato deve accompagnare chi trova il coraggio di parlare – ha detto –. Molte volte questo non accade. Anche i testimoni di giustizia vengono lasciati soli». Fa un nome: Franco Caminiti, più volte minacciato di morte «l’ultima solo due giorni fa. La lotta alla mafia non può essere fatta dal singolo. Deve esserci un noi. Altrimenti si perde».
La parola “memoria” è stata pronunciata tante volte. Ma oggi, in questa sala raccolta intorno a un libro e a una voce, non è rimasta vuota. È diventata gesto collettivo, esercizio civile, presenza viva.
A quarantatré anni dall’omicidio di Gennaro Musella, non c’è monumento che valga più di un racconto restituito. Una figlia che ricorda. Un gruppo che legge. Una comunità che ascolta. E un nome che torna, finalmente, ad abitare la storia.