Dalle edicole che chiudono alle redazioni svuotate: l’Italia assiste in silenzio al collasso della sua informazione, mentre un mestiere antico e indispensabile viene lasciato morire nell’indifferenza
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Vi presentiamo la seconda delle sei puntate sulla crisi della stampa in Italia. Un declino che ha radici antiche e ragioni complesse. LaC proverà a raccontarvelo. Qui la prima puntata.
Dopo aver raccontato il naufragio del quarto potere, c’è un capitolo ancora più amaro, quello che riguarda le persone che quel potere lo facevano vivere ogni giorno. Perché il crollo dei giornali non sta travolgendo solo le testate: sta devastando un mestiere, la rete che lo sosteneva e le comunità che gli ruotavano attorno.
E l’Italia, senza quasi accorgersene, sta perdendo uno dei suoi presidi civili più
radicati: le edicole. Una volta erano punti di riferimento, crocevia sociali, luoghi di scambio. Oggi le edicole stanno vivendo l’estinzione più rapida tra le attività urbane.
Negli anni Duemila erano oltre 40.000. Oggi ne restano poco più di 22.000, e il numero continua a scendere.
Città intere rimangono senza un solo punto vendita; paesi di provincia perdono l’unico presidio che garantiva accesso quotidiano all’informazione.
Ogni serranda che si abbassa non è un semplice dato commerciale: è un buco nella democrazia locale. Perché dove non si compra un giornale, spesso non si parla più di politica, non si discute più dei fatti del territorio, non si incontrano più i cittadini che chiedono conto ai loro amministratori.
Quando spariscono i giornali dalla strada, si atrofizza anche la capacità di partecipare alla vita pubblica.
Un mestiere che si sgretola: il giornalismo, da professione a scommessa
La crisi non colpisce solo i luoghi della distribuzione. Colpisce direttamente le persone che raccontano il Paese. Partiamo dalla precarietà strutturale. Oggi l’ingresso nella professione è una lotteria: collaborazioni pagate pochi euro, compensi ridicoli a pezzo, contratti timidi e temporanei. Intere generazioni di cronisti vivono in un limbo economico che impedisce qualsiasi stabilità. Si aggiunge il fatto che le redazioni si riducono all'osso. In dieci anni molte testate hanno perso tra il 40% e il 60% del personale. Meno giornalisti significa meno inchieste, meno presidio sul territorio, meno capacità di verificare i fatti. La cosiddetta “ottimizzazione” è diventata un taglio chirurgico a tutto ciò che richiede tempo, coraggio e competenza.
Il giornalismo oggi viaggia su due velocità. Da un lato poche grandi firme stabilizzate, dall’altro un esercito di giovani costretti a vivere di collaborazioni instabili. Il giornalismo che denuncia diventa privilegio di chi può permettersi di non essere pagato.
Risultato: meno pluralismo sociale, meno punti di vista, meno diversità interna.
Un mestiere che dovrebbe essere specchio del Paese sta diventando specchio delle disuguaglianze.
Il paradosso italiano: informazione povera in un’epoca in cui servirebbe più che mai
Mai come oggi siamo immersi in dati, contenuti, notifiche. Mai come oggi servirebbero professionisti preparati per distinguere ciò che è vero da ciò che è manipolazione, propaganda o fake news.
E invece accade il contrario: meno giornalisti, meno tempo, meno soldi, più rumore.
Le istituzioni, nel frattempo, parlano di “aiuti all’editoria” come se bastassero misure tampone, senza mai affrontare la radice del problema: un ecosistema che non regge più.
La crisi dei giornali è la crisi di una filiera: editori, tipografie, distributori, edicolanti. Ma l’effetto finale ricade altrove: sui cittadini. Il giornalismo non è mai stato solo un lavoro: era una funzione civile. Il declino della stampa genera un’Italia più disinformata, più vulnerabile e più manipolabile.
Un mestiere da ricostruire
Se il giornalismo vuole sopravvivere non bastano abbonamenti digitali o qualche progetto “giovane”: servono politiche e investimenti radicali. Servono compensi minimi equi, contratti stabili, incentivi per le testate che assumono giovani cronisti. Un mestiere dignitoso crea informazione dignitosa. Si potrebbero rilanciare le edicole come presidi civici. In molti Paesi sono state trasformate in hub culturali, punti informativi, sportelli pubblici. In Italia si può e si deve fare lo stesso: sostegni fiscali, integrazione con servizi sociali, programmi di innovazione locale. Poi bisogna investire nelle redazioni locali.
Perché senza giornalismo di prossimità non esiste controllo democratico. La rinascita deve partire dai territori, non dai salotti romani o dalle direzioni nazionali. L’Italia che chiude edicole e abbandona i suoi giornalisti sta smantellando un pezzo fondamentale della sua identità civile.
Non è modernità: è arretramento. Non è evoluzione digitale: è impoverimento democratico.
Un Paese che rinuncia a raccontarsi diventa un Paese che non sa più chi è. E quando non sai più chi sei, è molto facile che qualcun altro decida per te.

