Sette marzo 2005: un boato, le campane che suonano, scatta l’allarme. La gente esce di casa mentre una parte del centro abitato di Cavallerizzo scivola giù. C’è rabbia ma non sorpresa, il paese se lo aspettava. Quella frana, che ha cambiato la storia di un luogo e dei suoi abitanti, era nota già da tempo. Ve n’è traccia in un progetto del 1903 del Regio ufficio del Genio civile di Cosenza, ma la pericolosità di quella porzione di territorio pare fosse nota già dal secolo prima. Una consapevolezza che, però, non ha fermato l’espansione edilizia di molti anni dopo, proprio in quell’area a rischio.

Cavallerizzo frana, dunque. Ma non tutta. Ne frana un pezzo, quello del versante sud; vengono danneggiate alcune case, una ventina in tutto, corrispondenti secondo le stime della stessa Protezione civile all’11,5% dell’intero abitato. Cavallerizzo è ferita, ma il suo cuore continua a pulsare. Eppure non passa molto che viene emanata l’ordinanza che dispone lo sgombero dell’intera frazione di Cerzeto, nel Cosentino. Quel battito si fa sempre più flebile ma non si spegne, mantenuto costante da un gruppo di abitanti che dopo il disastro si batte perché la sua terra non venga lasciata morire.

Liliana Bianco diventa la residente resistente. La sua è una fama non cercata, non voluta e non sperata. Ma le tocca. Perché Liliana Bianco non se ne va. E non tace. «La frana più grossa è stata quella di Bertolaso che ci ha delocalizzato», dichiara nel corso di una protesta per quello sgombero maldigerito nella vicina località Pianette.

Guido Bertolaso, all’epoca della frana, è capo della Protezione civile e viene nominato commissario per la gestione dell’emergenza a Cavallerizzo. Dieci anni dopo, con delibera del 17 febbraio 2015, la Giunta comunale di Cerzeto gli conferisce la cittadinanza onoraria «in considerazione dell’opera prestata alla popolazione di Cavallerizzo (…) mostrando, al di là dei compiti istituzionalmente previsti, un volto umano e una passione civile simbolo di uno Stato paterno e non patrigno». Un giudizio non condiviso dall’associazione Cavallerizzo Vive, fondata nel 2007 con lo scopo di impedire l’abbandono della frazione divorata dalla catastrofe.

Mentre nella sintesi di una relazione del geologo Fabio Ietto, contenuta negli atti del XIV Convegno internazionale interdisciplinare Ipsapa tenutosi nel 2009 a Gorizia, si legge: «Nel caso di Cavallerizzo l’evento potrebbe sintetizzarsi come un piccolo centro urbano, parzialmente coinvolto da una poco documentata frana nelle sue dimensioni, ma che gli organi decisionali hanno imposto comunque a totale trasferimento. Il che, ancora, significa la cancellazione di un “luogo” con tutto il suo patrimonio storico-culturale. Su tanto, nulla viene demandato al parere dei cittadini interessati, anche se appartenenti ad una minoranza etnica di origine albanese che, come tale, andrebbe maggiormente preservata e tutelata. Ne deriva che i cittadini coinvolti subiranno un irrimediabile danno non solo fisico ma anche sotto l’aspetto etico-storico e tradizionale».

Vito Teti, nell’introduzione al suo “Il risveglio del drago. Cavallerizzo: un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione”, pubblicato lo scorso anno per Donzelli, scrive: «Mentre siamo indaffarati a discutere se esiste o meno il mutamento climatico, questi eventi hanno conseguenze drammatiche perché non abbiamo fatto nulla per mettere in sicurezza il territorio, per controllare e curare le acque, per non svuotare i luoghi che erano anche presidi ecologici, di difesa del suolo, di irregimentazione delle acque, di cui non ci siamo preoccupati se non per coprirle, occultate sotto colate di cemento, sempre pronte a cercare la loro strada, a premere per uscire dall’assoggettamento imposto dal Sapiens».

E così, anche questo anniversario “tondo”, come dieci anni fa, è compleanno non per far festa ma per ricordare. Cosa è stato, ma soprattutto cosa non è stato. La terra fragile, la natura forte, nel mezzo l’uomo.

Tutto questo tempo ci racconta, ancora una volta, come la mancanza di prevenzione possa stravolgere da un giorno all’altro la vita quotidiana, lasciandone scheletri ovunque, e porte spalancate tra i vicoli come bocche senza più voce per urlare l’orrore. L’hanno ignorata quella frana, hanno lasciato che vi si costruisse sopra.

Poi, un giorno come un altro, è arrivata la pioggia. Una pioggia come tante, ma diversa. Cavallerizzo ha iniziato a scivolare, lentamente, portandosi dietro le vite normali dei suoi abitanti e disseminandone le tracce qua e là. Una bombola del gas su un muretto, un materasso davanti a un uscio, una lavatrice e un lavello tra le macerie, una porta a vetri che fa capolino da quello che resta di una palazzina. L’insegna del bar ormai spenta. I mille colori di esistenze costruite pezzo dopo pezzo contro il bianco della new town spuntata dal nulla. Il caos da una parte, dall’altra un ordine però dichiarato abusivo da una sentenza del Consiglio di Stato, per mancanza della Valutazione di impatto ambientale necessaria alla realizzazione. C’è chi va, chi rimane – come Liliana che sfida sigilli e lucchetti – e chi vuole tornare.

La storia si trascina lungo gli anni e gli anniversari: 2005, 2015, 2025. Il clamore scivola via, anche questo, trascinato dal tempo. Cavallerizzo resta, nonostante tutto. Luogo, simbolo e monito. Con i suoi muri presi a morsi, masticati. Su uno di questi, dopo la frana, compare una scritta: «La rabbia giusta, quella che ha ragione, si chiama indignazione. Perché la rabbia giusta ha fatto la rivoluzione, ogni conquista della storia, ogni diritto acquisito, ogni progresso è nato dall’indignazione di una minoranza che sentiva di subire un sopruso».