C’è un’Italia che ogni giugno si siede in silenzio. Lo fa tra banchi già scritti da generazioni, sotto il sudore sottile dei ventilatori rotti e lo sguardo sgranato di un’ansia nuova, che non ha più il nome della paura, ma quello più sofisticato e feroce della “performance”.
È l’Italia degli esami di maturità. Un nome bellissimo, un nome antico, che oggi sopravvive come sopravvive un altare dopo la sconsacrazione. Nessuno lo venera più, ma nessuno osa abbatterlo. Sta lì, tra residuo e rimpianto.

Cos’è la maturità, oggi? Una parola usurata, come molte altre che la nostra modernità tecnica ha trasformato in plastica. Maturità era una conquista. Ora è una procedura. Eppure il suo significato, se non lo cerchiamo nei regolamenti ministeriali ma nel cuore vivo della poesia, dice ben altro. 
Maturità è il tempo delle scelte, della crisi, nel suo significato originario di “separazione”. È il tempo in cui si scopre che ogni sapere comporta sofferenza, come ci ha insegnato Leopardi: “più s’apprende e più si soffre”. Ma anche che soffrire non è solo dolore, è apertura. È entrare nel mondo degli adulti e degli altri.

Quando nacque, l’esame non era per tutti. Nel 1859, con la legge Casati, era il filtro d’élite per una borghesia in ascesa. Poi venne Gentile, e lo rese tempio laico della selezione aristocratica: severo, filosofico, solenne. Allora sì, si “sudava la maturità”, ma la si riconosceva: era il varco, il confine tra l’essere e il diventare.
Poi vennero gli anni Sessanta, e con essi la speranza. L’istruzione si aprì, le masse entrarono nei licei, e l’esame divenne rito collettivo, soglia condivisa. Era ancora sacro, ma diventava anche umano.

Oggi, che cos’è? Un algoritmo mal costruito. Due prove scritte, una orale multidisciplinare, Invalsi, PCTO, griglie, indicatori, crediti scolastici. E poi, la retorica del merito. Un merito che non riconosce la fatica di chi ha lottato contro contesti diseguali, famiglie difficili, disabilità invisibili. Un merito che non sa che il talento, da solo, è una bugia borghese se non è sostenuto da un sistema che ne favorisca la fioritura.
Così la “Carta del Merito” sostituisce il Bonus Cultura. Perché oggi non si deve più essere cittadini, ma competitori. Il liceale che non ce la fa non è fragile, è “non pronto al mercato”. È la scuola-azienda, la scuola del merito come nuovo darwinismo: chi cade, lo fa da solo

Eppure, in ogni aula, ogni anno, qualcosa resiste. Un professore che spiega ancora Dante con un tremito nella voce. Una studentessa che apre il suo orale parlando di Pasolini e della responsabilità dello scrivere. Uno studente che lega le sue paure a quelle di Antigone, di Raskol’nikov, di Nora. 
Perché la vera maturità non sta nella perfezione delle risposte, ma nella verità delle domande. Mi chiedo allora: cosa vuol dire oggi attraversare la maturità? Non è forse il momento in cui si comprende che la cultura non salva dal dolore, ma insegna ad abitarlo? Che non c’è crescita senza crisi, e che l’identità è una lotta continua, un campo di tensioni? L’“esame di Stato” ha perso questa funzione: non forma cittadini, ma candidati. Non ti chiede cosa pensi, ma se sai rispondere come si deve.
E invece la scuola dovrebbe insegnare l’insofferenza al conformismo, la ribellione gentile, la lucidità dell’anomalia. Se avessi potuto ridisegnare quell’esame, lo avrei fatto come un rito di passaggio civile. Uno spazio in cui leggere l’ingiustizia del mondo e cercare parole nuove per raccontarla. Uno spazio in cui non si valutano competenze, ma si riconosce la coscienza.

Avrei chiesto agli studenti:

Dimmi, cos’è per te la libertà?

Cosa cambieresti della tua città?

Quale libro ti ha fatto piangere?

Cosa vuol dire oggi essere giusti?

Avrei ascoltato, come si ascolta un futuro che ancora non sa parlarsi, ma ha già qualcosa da insegnarci. L’esame di maturità, così com’è, non è più un esame. È un atto burocratico. Ma il dolore dei ragazzi – insonnia, ansia, farmaci, isolamento – è reale.
È la ferita che una civiltà infligge ai suoi figli quando non sa più come farli crescere. Quando non ha tempo per ascoltarli. Quando li misura, ma non li guarda. Io sogno ancora un’Italia che si inginocchi davanti ai suoi diciottenni. Non per venerarli, ma per chiedere perdono.

Perché non abbiamo dato loro che un mondo rotto, un lessico morto, e un orizzonte sbarrato. Eppure, ogni giugno, loro si presentano lo stesso. Con le loro domande, i loro tremori, i loro sogni clandestini. Sono loro, oggi, i poeti della realtà. 

E noi, adulti, possiamo solo fare una cosa: tacere e ascoltarli.

“Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato…” (Leopardi, La Ginestra)

Ecco. In questo verso, c’è più maturità che in mille commissioni.