La giornalista ospite della kermesse racconta le ferite del Medio Oriente tra memoria, radici e distruzione: «Non voglio immaginare il futuro, prima va fermato il massacro»
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Prima, il silenzio. La paura di essere accusati di antisemitismo, di finire ai margini. Poi, la spinta dal basso ha rotto il muro: Gaza ha smesso di essere un tabù, è arrivata in alto, nei discorsi pubblici, nei post sui social. Protetta ancora da asterischi, per evitare la censura degli algoritmi. Ora che il massacro che si sta compiendo nella Striscia non è più argomento radioattivo, molta parte dell'intellighenzia che ha atteso - forse troppo - prima di prendere una posizione sulla vicenda, parla apertamente di genocidio, quello che si sta compiendo nei confronti dei palestinesi.
La giornalista e scrittrice Paola Caridi, vincitrice della sezione Economia e Società con “Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi” (Feltrinelli) nell'ambito del Premio Sila, non ha voluto separarsi dalla sua sciarpa di seta nel viaggio che l'ha portata fino a Cosenza dove ha dialogato con Tomaso Montanari in piazza dei Follari.
«Il quadro delle partenze dice che il treno arriva fino a Reggio Calabria - ha scritto ieri sui suoi social -. La città di mio padre, la città che aveva lasciato per fame a 17 anni, quando la seconda guerra mondiale ancora mordeva l’Italia, la sbranava. Voleva ‘salire’ a nord, un nord che fu Napoli e poi Roma, dove incontrò mia madre in un campo di contadini poveri. Oggi non arriverò fino a Reggio. Né fino alla Catona, sosta obbligata dei viaggi estivi verso il mare, luogo di cui solo da poco ho saputo la storia delle filande di seta. La stessa seta della sciarpa di famiglia che oggi porto con me».
Il suo ultimo libro, è un racconto che come il vento tra i rami di un tiglio, attraversa luoghi oggi regalati alla polvere, a cui forse non si deve più chiedere "perché questo orrore", ma: "Quando finirà?"
La scelta di un racconto botanico è simbolica, ma anche profondamente politica: le radici, secondo la giornalista e saggista, aiutano a capire le fratture del presente molto più di quanto facciano le cronologie umane. E tra queste fratture, c’è quella – lacerante – del conflitto israelo-palestinese.
«Siamo stati troppo a lungo al centro del palcoscenico», spiega Caridi. «Dovremmo metterci ai margini, guardare il mondo con altri occhi. Quelli degli alberi, ad esempio». Il pianeta, dice, starebbe meglio senza gli esseri umani, e proprio lo sguardo della natura permette di cogliere dimensioni del conflitto che la narrazione politica e mediatica tende a semplificare.
L’idea del libro nasce da un gesto banale e doloroso: l’abbattimento di un albero di gelso nel cortile della casa dove aveva vissuto dieci anni a Gerusalemme. «Perché l'hanno fatto? Le more sporcavano il pavimento, così dissero». Da lì, la riflessione sulla distruzione sistematica del paesaggio palestinese: gli uliveti rasi al suolo per far posto al muro di separazione, la cancellazione di un giardino mediterraneo – il bustan – a favore della retorica del “deserto che fiorisce” portata dall’immigrazione sionista. Eppure, quel paesaggio aveva già la sua biodiversità, fatta di gelsi, nespoli, mandorli, albicocchi, ulivi. Una ricchezza agricola e culturale che è stata cancellata.
Caridi ha vissuto Gerusalemme a lungo, ma rifiuta la definizione di “rapporto viscerale”. Il suo è stato un legame prosaico, quotidiano, legato più alle persone che ai luoghi sacri – anche se ricorda come, per una certa religiosità palestinese, anche gli alberi possano avere una dimensione sacra. «Dopo il 7 ottobre non ci sono più tornata. È un dolore profondo, umano», confessa.
Sul termine “genocidio”, oggi finalmente pronunciato anche da voci autorevoli, Caridi ricorda che fu lei, insieme a Tomaso Montanari e pochi altri, a usarlo per la prima volta in una lettera pubblica rivolta all’Europa. «Genocidio non è solo un’accusa. È la descrizione di una strategia», dice. Gaza non sta morendo da sola: «La stiamo uccidendo». L’uso di quella parola è stato, all’inizio, un atto isolato. Ma presto ha trovato riscontro nella società civile. «Quel sussurro che sentivamo è diventato voce. E ora non è più silenzio».
Infine, uno sguardo sul futuro. O, meglio, la decisione di non guardarlo. «Non voglio immaginare Gaza tra vent’anni. Prima bisogna fermare il massacro. Poi si vedrà». Ma conclude con un’immagine che resta impressa: «Per molti palestinesi, Gaza è bellissima. Anche ora, tra le macerie. È il mare, l’orizzonte. È storia, identità. E questo non può essere cancellato. Neanche con le bombe».