La città dei Bruzi celava posti riservati, sussurri decadenti e verità indicibili. Un ricordo riaffiora: una villa isolata, una stanza buia, un profumo familiare. Forse troppo
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Ecco le vostre storie che narrano di amori e di passioni. Questa è la quarta storia arrivata alla nostra redazione e che vi proponiamo ovviamente in forma anonima.
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Correvano i mitici anni anni 90. Ricordo, come se fosse un sogno, che c’erano serate estive in cui l’aria di Cosenza aveva il sapore di umido e pioggia, come se il tempo si fosse fermato sotto un lampione giallastro dei palazzi in costruzione che sorgevano dove oggi c’è Viale Parco. La città era diversa da quella di adesso, la Zona Industriale di Rende era quasi deserta con pochi capannoni, quasi tutti spettrali, e una discoteca che si chiamava Akropolis. Diventata famosa per una sparatoria, quella discoteca è adesso solo un’eco melanconica, quasi leggendario, di una città che stava per cambiare per sempre. Allora la città era più silenziosa, ma piena di segreti.
Proprio oggi, passando a tanti anni di distanza, sulla strada che porta verso le frazioni di Castiglione Cosentino ho ripensato a quei segreti. Mi è venuto il desiderio di raccontare qualcosa, di narrare di un luogo che per troppo tempo ho tenuto solo per me. Sarà che sto diventando anziano, ma, se ci ripenso, molto di quel periodo mi sembrava già allora irreale: i suoni ovattati del traffico di Corso Mazzini, i giovani dai pantaloni troppo larghi, le risate troppo forti nelle trattorie, gli ultimi echi delle sezioni di partito e quelle cene, quelle famose cene, con Luigi (nome di fantasia), il mio amico imprenditore.
Non avevo mai capito perché il mio amico amasse una mediocre pizzeria di Quattromiglia Rende, in cui si scendeva in una specie di seminterrato dal soffitto troppo basso. Sono sempre stato riservato. Anche se eravamo intimi, non gli raccontai mai dei continui tradimenti di mia moglie, delle sue continue fughe, del modo in cui parlava di emancipazione, tempo per sé, di respiri nuovi, di passeggiate con le amiche. Luigi era già al quarto bicchiere di vino, mi guardava con gli occhi penetranti, come se mi leggesse dentro. Io parlavo, come era il mio solito, di arte, libri ed impegno politico. Ma il mio amico era altrove, sembrava distratto, come se aspettasse qualcuno o qualcosa.
«Tu non sai niente, amico mio. Questa città non è l’Atene del Sud, ma è una puttana con le gambe incrociate, e chi non la guarda bene negli occhi finisce per credere nella sua innocenza. È una città dove la borghesia annoiata ha anche il suo club segreto»
Ridemmo assieme di gusto, nel frattempo a pizzeria si stava svuotando: restavano i resti di pizze mezze mangiate, mozziconi schiacciati nei piattini da caffè e l’odore quasi acido di salsiccia piccante scadente e alcol dolciastro. Portarono assenzio verde. Luigi iniziò a parlare del Club. Non era la prima volta che me ne parlava. Luigi era un uomo che amava millantare partite di poker, avventure di ogni tipo e serate trasgressive. Io non lo prendevo mai troppo sul serio, conoscevo bene quel modo di fare tipico della mia città.
Amava raccontare che nel Club c’era sempre un noto primario dell’ospedale che leccava i piedi alle donne nelle loro calze velate. Descriveva poi una stanza buia dove si poteva avere un incontro con una ragazza sconosciuta. Eravamo al terzo assenzio, io che bevevo pochissimo ero stordito. Da allora i miei ricordi si mescolano con la foschia delle serate di giugno. A un tratto ci trovammo al tavolo con un gruppo di donne, arrivate non si sa da dove. Già allora si muovevano nella mia mente come presenze teatrali, come uscite da un sipario invisibile di un atto del teatro del grottesco. Tacco dodici, sigaretta accesa tra le dita affusolate, sorrisi finti ma sguardi precisi. Io che mi turbavo anche ad una caviglia scoperta mi sentivo come un adolescente in una garçonnière di Parigi. Poi uscimmo quasi di fretta, inghiottiti dal respiro della notte. La strada era un filo sottile tra i campi addormentati, immersi in una nebbia leggera che rendeva ogni cosa più morbida ed irreale. Le poche luci arancioni sulla strada disegnavano ombre danzanti sui muri scrostati delle case di campagna. Arrivammo a una villa isolata, dalle persiane chiuse e il portone in ferro battuto. Dentro, il Club: velluti porpora, specchi antichi, lampade basse. Un’estetica dannunziana, decadente e sensuale. Le pareti tappezzate di volti, maschere, corpi appena accennati. Le donne erano già lì, come se non ci avessero mai lasciati. Una di loro, intuendo la mia titubanza, mi prese per mano e mi spinse in una stanza buia, sussurrandomi: «Entra pure; qui ci si dimentica anche del tempo».
Entrai e nel buio mi sentii toccare da mani sinuose che si muovevano nella totale oscurità. Fu passione pura, erotismo come non lo avevo mai provato. Non seppi mai chi fosse quella donna, ma il profumo di mia moglie lo riconoscerei tra mille.
Da quella sera fummo la coppia più felice del mondo.