Il nostro viaggio nei ricordi fa tappa ad Amaroni, piccolo borgo collinare incastonato tra uliveti, vigneti e quiete campestre. La sua tradizione apistica lo ha fatto intitolare “Città del miele”, conservando un’anima rurale autentica, fatta di relazioni semplici e tradizioni condivise
Tutti gli articoli di Attualità
PHOTO
In Via Puccini ad Amaroni (Catanzaro), Barbara e Barbara (omonime per devozione alla santa patrona) rispettano l’abitudine estiva delle signore calabresi del mettere la sedia davanti alla porta di casa e passare un po’ di tempo tra chiacchiere e vecchi ricordi, che hanno condiviso con noi.
«Non c’era il divertimento di oggi, ma stavamo bene. Si lavorava e ci si divertiva. Raccoglievamo pomodori, fagiolini, peperoni, melanzane, fragole, patate.
Si andava anche al mare. Alcune famiglie avevano addirittura la tenda, fatta con bastoni incurvati in superficie a mo 'di arco, ammantati di coperte. Ci si stanziava nella zona corrispondente all’attuale Sun Beach [resort a Squillace Lido]. Cucinavamo sulla spiaggia utilizzando delle pietre come base per accendere il fuoco. Lì vicino c’era una fontana che usavamo per lavare i panni, i piatti. Dormivamo in quell’oasi, passandoci buona parte della stagione. Non tutti avevano la possibilità di farsi la tenda, quindi ospitavamo i vicini nella nostra.
Andare al mare era un bene per la salute. Mia mamma si infilava nella sabbia calda per alleviare i dolori da reumatismi. Funzionava. E chi non raggiungeva il mare, faceva il bagno alla Serra, nel "mortarìadu"».
Ancora oggi, tra il fiume Ferrera e la vegetazione della Serra, i più cercano un refrigerio che profuma di antica resistenza al caldo e alla modernità.
Fermata “Memorie di giochi”
«Per la festa di Santa Barbara, a fine luglio, si organizzavano dei giochi. C’era la “‘ntinna”, un palo molto alto e cosparso di cera con in cima un premio che poteva consistere in soldi o altro. Mio suocero una volta riuscì a prenderlo. Era molto difficile raggiungere il bottino data la scivolosità della cera. Da allora venne chiamato “u ‘ntinnaru”.
Poi si faceva la corsa con i sacchi, oppure si rompeva la “pignateda”. Appendevano le pignate [un tipo di pentola in terracotta per cuocere al fuoco] e qualcuno bendato doveva romperle con un grosso bastone. Era un rito calcolato, perché non tutte le pignate erano piene. Quindi il colpitore si avvicinava piano piano, dava un colpetto e sondava il contenuto per quanto poteva. E la festa continuava così, tra le funzioni religiose, giochi cui partecipava l’intera comunità e il piatto tipico che era lo spezzatino».
Ma non si giocava solo per la festa. «Da giovani ci riunivamo nella zona “muragghjiu” e passavamo il tempo tra il gioco dello “zurru” a quello dei “vrìduci”. Nel primo, ci si metteva in cerchio e uno diceva “Zurru zurru peccatu mortala” indicando qualcuno, il quale doveva correre per sfuggire alla presa degli altri. Il secondo consisteva nel tirare in aria e riprendere delle pietre facendo attenzione a non farle cascare.»
Fermata “Bellavista”
A pochi passi, in zona Bellavista, Raffaella, Rosalia, Concetta e Immacolata passano le serate estive su una panchina. Nonostante non mi conosca, Raffaella mi offre dei pop-corn. Dato il racconto che avrebbero fatto da lì a poco, i pop-corn hanno assunto l’aspetto di un ottimo presagio.
«In estate giocavamo [nominano i giochi di cui sopra]. Non avevamo mica il cellulare o la discoteca! Ora si cerca la compagnia solo per non stare soli. Prima stavamo insieme per il gusto di farlo. Non ci davamo appuntamento tramite messaggino. Con i fidanzati ci si scambiava le letterine d’amore. Al tempo era più bello. Non avevamo molto, ma eravamo felici. E poi ballavamo anche senza discoteca. Ogni volta che stavamo insieme era l’occasione per giocare, cantare, ballare. Che fosse la festa estiva di paese, la Pasquetta o semplicemente il pomeriggio a tempo perso. Si cantava soprattutto lavorando».
«Se da una parte giocavamo, dall’altra i nostri genitori ci portavano nei campi di grano a lavorare. Una persona iniziava a intonare uno stornello. Il segnale di inizio era già chiaro prima ancora che aprisse bocca: metteva la mano a cucchiaio vicino alla guancia e partiva un urlo. In quel caldo, poi, qualcuno chiedeva del vino gridando: “Portàtilu, ca mo mera!” [portatelo, che adesso ci vuole!] anche se era caldissimo; non esistevano mica il frigorifero o la borsa termica! Era tutto diverso. Alcuni uomini da qui arrivavano a Botricello a lavorare e vi restavamo per diversi giorni data la distanza e i pochi mezzi a disposizione. Non avendo cellulari, non c’era comunicazione. Un giorno un signore, che “andava con i morti” [pare che sentisse le presenze e ricevesse comunicazioni da esse] li avvisò che ad Amaroni era morto un signore. Ed era morto veramente. Oggi non si sentono più queste storie».
Ad Amaroni, le estati sono piene di memoria, senza malinconia. Ci sono ancora sedie davanti alle porte e panchine occupate dai ricordi, risate che spuntano dal fondo di una voce ruvida, vera. E, forse, se si tende bene l’orecchio, si può ancora sentire qualcuno gridare “Portàtilu, ca mo mera!”