Un delitto a colpi di fucile rimasto senza colpevoli. Il biglietto a casa del boss di Borgia con il nome del magistrato. Il summit nelle campagne di Rosarno raccontato dal pentito Pino Scriva. Le domande sull’agguato restano ancora senza risposta
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Sono trascorsi 50 anni dal brutale omicidio del giudice Francesco Ferlaino, avvocato generale della Corte d’Appello di Catanzaro, avvenuto a Lamezia Terme il 3 luglio del 1975. Mentre rientrava a casa è stato freddato a colpi di fucile da tre sicari a volto scoperto che non sono mai stati identificati. Quell’infausto giorno una vettura affiancò il magistrato e, compiuto il delitto, i killer si allontanarono prima che l’appuntato che lo accompagnava potesse fare qualcosa. Quell’auto – che si scoprirà poi essere stata rubata a un avvocato di Catanzaro – verrà ritrovata il giorno dopo dalla parte opposta della Calabria, a Copanello.
Francesco Ferlaino, morto a 61 anni, è stato il primo magistrato a essere ucciso dalla mafia in Calabria. Le sue indagini si erano spinte avanti, tanto da lambire i rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata, quel patto oscuro, sancito storicamente proprio negli anni 70, che avrebbe portato le cosche a inserirsi nelle istituzioni, nelle stanze della politica, a pesare fortemente sul tessuto economico dei territori infiltrati. A diventare, in parole povere, la mafia più potente, ricca e globalizzata.
Ferlaino aveva intuito quella fase evolutiva della criminalità organizzata e iniziato a scalfirne l’opera.
La mafia il giudice la conosceva bene: aveva presieduto al processo sulla strage di Ciacculli, a Palermo, relativo a un attentato effettuato da Cosa Nostra nel quale persero la vita, nel 1963, quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un sottufficiale della Polizia. Un’Alfa Romeo Giulietta imbottiva di esplosivo sancì la fine della prima guerra di mafia della Sicilia del dopoguerra.
Tra gli imputati c’erano boss del calibro di Angelo La Barbera (capo della famiglia di Palermo centro), Pietro Torretta (capocosca del quartiere Uditore di Palermo), Luciano Liggio (boss dei corleonesi).
Un anno dopo il delitto venne trovato in casa del boss Antonio Giacobbe, capobastone di Borgia, un foglio sul quale era appuntato il nome del giudice che aveva chiesto nei suoi confronti delle misure di prevenzione antimafia. Inizialmente vennero inquisiti Pino Scriva, esponente delle cosche di Rosarno, e Antonio Giacobbe. I due vennero assolti per insufficienza di prove. Tempo dopo Scriva diventerà il primo pentito di ‘ndrangheta. Nei suoi verbali racconta che «la decisione di uccidere il magistrato Ferlaino fu presa in una riunione svoltasi nel Bosco di Rosarno-Gioia Tauro alla quale io partecipai non perché fossi stato invitato ma perché in quel periodo mi trovavo latitante in quel luogo. A tale riunione erano presenti Peppe Piromalli, Giuseppe Avignone di Taurianova, Paolo De Stefano, Saverio Mammoliti ed altri che in questo momento non ricordo». Scriva, nelle sue dichiarazioni, chiamò in causa un senatore, oggi defunto e che fu prosciolto da ogni accusa, spiegando che sarebbe stato proprio lui a evidenziare, in quella riunione, «che Ferlaino stava rompendo le uova nel paniere; al che Piromalli ribattè che se erano riusciti ad aggiustare ben altre vicende, non vi sarebbero stati problemi per risolvere anche questa vicenda». Tutte dichiarazioni che, finora, non hanno portato a nulla. Scriva è morto nel 2021 e molti interrogativi sul delitto Ferlaino restano ancora senza risposta.