La testimone di giustizia torna a Reggio Calabria dopo dieci anni. Vittima di un’agghiacciante violenza di gruppo a 13 anni, racconta una storia di solitudine e coraggio. Un’intervista per dire basta all’abbandono di chi trova il coraggio di denunciare
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Un nome che porta con sé il peso di una ferita mai rimarginata. Anna Maria Scarfò, la bambina diventata suo malgrado simbolo di una delle pagine più buie della cronaca calabrese, è tornata a Reggio Calabria. Dieci anni dopo l’uscita dal programma di protezione, dopo una vita spezzata a 13 anni da uno stupro di gruppo, dopo lo stigma e l’allontanamento forzato, oggi ha deciso di parlare.
Lo ha fatto nel format "A Tu per Tu” de ilReggino.it, in un’intervista intensa, cruda, a tratti struggente. Perché il dolore non finisce con la violenza. «Mi hanno chiamata buttana, mi hanno fatto sentire colpevole, mi hanno spinta via dalla mia terra», racconta Anna Maria. «Ma io ero solo una bambina».
Un racconto che taglia il respiro: la violenza, subita a 13 anni da più uomini adulti del suo stesso paese, è solo l’inizio. Il resto è una lunga via crucis fatta di isolamento, accuse, sguardi, giudizi. Nessuno che l’abbia davvero difesa. Nessuno che l’abbia aiutata a guarire. Solo lo Stato, che le ha garantito una scorta, una nuova identità, una vita altrove. Ma anche uno Stato che, alla lunga, l’ha lasciata sola. «Dopo anni sotto protezione, sono uscita dal programma. Pensavo di essere libera, ma ero solo più sola. Tutti avevano dimenticato. Ma la ‘ndrangheta no».
Anna Maria ha imparato a sopravvivere, ma non dimentica. E oggi torna per dire che non si può lasciare sole le donne che denunciano. «Se non ci fossero state poche persone a prendersi cura di me, sarei morta. Serve una rete vera, concreta. Dobbiamo educare, parlare, denunciare. Non si salva nessuno con il silenzio».
Nell’intervista parla anche dell’ignoranza e della misoginia che l’hanno colpita: «Mi hanno fatto passare per consenziente, provocante. Come se una bambina potesse mai volerlo. Hanno difeso i carnefici, non la vittima».
Il suo ritorno a Reggio è un atto di coraggio. Non cerca vendetta, ma rispetto. E chiede con forza che mai più una bambina debba vivere quello che ha vissuto lei. «Dobbiamo scegliere da che parte stare. E io voglio stare dalla parte di chi parla, di chi denuncia, di chi sopravvive».
Tutto è iniziato quando, dopo i fatti di Seminara, i fatti del branco, che ormai sono noti a tutti, abbiamo iniziato ad accendere sempre di più i riflettori su quelle che sono le violenze che giornalmente vengono perpetrate all'interno delle case, anche ai danni di giovanissimi. E proprio per questo, raccontando, parlando, discutendo, è venuto fuori uno spaccato, diciamo, terrificante da un certo punto di vista.
Ci siamo resi conto di come la storia non abbia insegnato nulla, di come la storia puntualmente si ripeta. E mentre discutevamo delle barbarie del branco, di come la cattiveria umana si possa materializzare anche nei confronti di una ragazzina innocente, ci è venuto in mente che quella storia noi l’avevamo già raccontata.
Quella storia, nel 1999, aveva avuto un altro volto, un'altra vittima. Quella vittima oggi è qui con noi. Abbiamo voluto fortemente che Annamaria Scarfò fosse qui con noi, perché lei stessa è la testimone di come il tempo passi e la gente dimentichi troppo in fretta, e le storie tendano poi a ripetersi, proprio perché la memoria è labile, perché una volta spenti i riflettori si entra in un mondo invisibile, dove nessuna donna dovrebbe mai essere lasciata sola.
«Quella notte dovevo andare a cantare in chiesa perché facevo parte del coro. Mi vestii per l’occasione, mamma mi aveva comprato un maglioncino verde e una gonnellina nera. Misi un filo di lucidalabbra. Mi diressi verso la chiesa e andai a fare le prove. Entrò Domenico e mi disse: "Vieni ancora, è presto, usciamo, dai, parliamo un po’. Non ti preoccupare, tanto arrivi in tempo per la messa". Mi fidai. Fino a quel giorno non aveva mai mostrato segni di voler farmi del male.
Uscimmo, parlammo. Lui mi disse: "Appoggiamoci un attimo in macchina, facciamo il giro del paese". Io risposi: "No, Domenico, se lo scopre mio padre si arrabbia tanto". Mi rassicurò. "Facciamo solo il giro della piazza". Purtroppo mi fidai. Salii in macchina. Capii subito che stava per succedere qualcosa. Lui si allontanò dal paese. Gli dissi: "Dove mi stai portando? Torniamo indietro". Mi arrivò uno schiaffo. "Stai zitta". Serrò le sicure della macchina. Arrivammo in un casolare in un paese vicino al mio, San Martino. Lampeggiò con i fari. Dal casolare uscirono tre persone. Aprirono il cancello. Io non volevo scendere dalla macchina. Domenico Iannello mi afferrò per i capelli e mi buttò a terra. Mi presero di peso. Mi portarono dentro una casa e mi misero su un tavolo. Da lì il mio cuore si è fermato. Sentivo solo dolori. La saliva non andava giù. A turno mi hanno violentata. Sentivo le voci: "Adesso tocca a te". Quando finì, mi buttarono sulla ferrovia. Mi rialzai e tornai a casa. Avevo le gambe sporche di sangue. Non dissi nulla ai miei genitori. Avevo paura. Mi avevano minacciata».
La solitudine è la seconda, se non la terza violenza, che viene fatta ad Annamaria. Dopo la violenza fisica, dopo quella psicologica, dopo lo sradicamento dalle proprie radici e dai propri cari, l’altra violenza è farla crescere da sola.
Ma adesso, la violenza che sta subendo è ancora più brutta: quella di aver capito che tutto ciò che ha fatto, tutto il coraggio che ha avuto nel denunciare, l’essere diventata un esempio, una prova vivente che si può sopravvivere a queste torture, oggi si scontra con la solitudine. Perché se è vero che c’è stato un paese che l’ha abbandonata, una famiglia che è stata divisa, deve esserci uno Stato che risponde. E oggi Annamaria lancia un appello proprio alle istituzioni.
«Sì, ma non per Annamaria. Lo faccio per tutte le donne come me. Per la ragazza di Seminara, per tutte. Perché ogni giorno, quando sento il TG e sento “una donna è morta”, “una donna è stata stuprata”, penso che abbiamo bisogno dello Stato, delle leggi. Abbiamo bisogno che la giustizia faccia il suo corso. Ma non basta un numero attaccato alle porte – tipo il 1522 o il centro antiviolenza – no, non è così. Perché anche lì, magari ti fanno seguire un percorso, ma se hai un bambino, ti allontanano anche da lui. E non va bene. Bisogna cambiare il sistema. Noi denunciamo, ma poi? Io questo voglio dire e lo ripeterò sempre: non vi fermate, denunciate. Perché qualcosa prima o poi deve cambiare. Non mi sono arresa io, quindi possiamo farcela tutti».