L’ex titolare della Ased Srl riabilitato con formula piena dal Tribunale di Reggio Calabria «perché il fatto non sussiste». Smontato l’intero impianto accusatorio nato nel 2016. Dalla commozione in aula alla denuncia della gestione giudiziaria: «Io ho perso tutto, ma sono ancora qui»
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Ci sono voluti quasi nove anni per mettere la parola fine ad uno dei recenti capitoli giudiziari che hanno colpito con forza l’Area Grecanica. Tempo che Rosario Azzarà ha atteso per potere tornare a pronunciare il suo nome senza il peso di un'accusa. E ora che il processo "Ecosistema" si è concluso, con una sentenza che ne riconosce l'assoluta innocenza, quel nome – il suo – torna a essere voce. Una voce stanca ma non spenta.
Nel pomeriggio del 25 giugno 2025, davanti al Tribunale di Reggio Calabria, si è chiuso il procedimento giudiziario nato da una delle inchieste antimafia più rumorose degli ultimi anni. L’operazione "Ecosistema", coordinata dalla Dda reggina e condotta dai Carabinieri, aveva fatto tremare l'area grecanica, portando a 14 arresti nel dicembre del 2016. Tra i coinvolti, imprenditori, amministratori pubblici, tecnici comunali. Al centro dell’inchiesta: un presunto sistema di controllo mafioso sugli appalti per la gestione dei rifiuti in diversi Comuni del basso Jonio reggino, tra cui Melito Porto Salvo, Bova Marina e Brancaleone.
Secondo l'accusa, vi era una rete di connivenze tra politica, pubblica amministrazione e cosche – in particolare i clan Iamonte e Paviglianiti – finalizzata a favorire ditte amiche in cambio di sostegno elettorale e vantaggi economici. Un circuito corruttivo che, secondo la Procura, avrebbe alterato il corretto funzionamento delle gare d'appalto, compromettendo anche l'autonomia amministrativa di alcuni enti locali. Un meccanismo che, per Bova Marina e Brancaleone, ha portato allo scioglimento dei rispettivi consigli comunali per infiltrazioni mafiose.
Tra gli imprenditori finiti al centro dell'inchiesta c'’era Rosario Azzarà, all'epoca titolare della società Ased Srl, operativa nel settore dell’igiene urbana. Per lui, l'accusa era pesante: sarebbe stato uno dei perni del sistema illecito, beneficiario diretto di appalti ottenuti attraverso relazioni opache con ambienti criminali. Il sequestro preventivo, avvenuto pochi giorni dopo gli arresti, colpì la sua azienda: una struttura articolata, con oltre 180 dipendenti, operante in più comuni e dotata di un parco mezzi e infrastrutture logistiche di rilievo. Di quella realtà, oggi, restano solo gli scheletri vuoti degli stabilimenti ormai in disuso.
Alla lettura della sentenza la commozione in aula è stata incontenibile. «Io non ho sentito bene la pronuncia del Presidente - ha raccontato Azzarà ai nostri microfoni -. Mi sono rivolto alla mia avvocatessa: “Scusa, ma sono stato assolto?”. E lei: “Sì, certo. Da tutti i capi d’accusa”. A quel punto ci siamo abbracciati. L’emozione non si poteva frenare. Mi sono messo a piangere dalla gioia. E poi ho visto che anche altri piangevano. C’era chi era fortemente emozionato. Non me l’aspettavo».
Azzarà esce dalla vicenda con il capo sollevato, assolto con formula piena perché il fatto non sussiste insieme ad altri imputati, mentre per molti altri i reati sono risultati prescritti. Smontato punto per punto l'impianto accusatorio. «Oggi si chiude un capitolo doloroso della mia vita – ci dice Azzarà -. Questa assoluzione rappresenta per me una liberazione, non solo giuridica, ma anche personale».
Una liberazione agognata, ma che arriva troppo tardi per salvare l'impresa costruita in una vita. I beni sequestrati nel 2016 – terreni, immobili, attività commerciali e il cuore pulsante della Ased – non sono mai stati gestiti, per l’imprenditore, “con l'attenzione alla continuità che una realtà così complessa avrebbe richiesto”. In azienda, racconta Azzarà, «io ero l'operaio tra gli operai». Un modello gestionale comunitario, non padronale, dove il datore di lavoro – racconta - era presente giorno e notte, dove la cura del personale veniva prima di ogni tornaconto.
Dopo il sequestro, arrivano gli amministratori giudiziari.«Nessuno è mai venuto in azienda a sequestrare i computer, le telecamere, i telefoni. C'erano prove, documenti, sistemi di registrazione che avrebbero parlato da soli. Eppure non li hanno mai presi. E poi i furti, l'abbandono, la svalutazione. L’azienda è stata smantellata senza trasparenza, senza nemmeno una perizia».
Eppure, in quegli anni, Azzarà non ha mai smesso di documentare, segnalare, denunciare. Lettere alla Procura, ricorsi, incontri in Prefettura. Ha scritto, firmato, parlato. Ha difeso la sua dignità e quella dei suoi dipendenti. «Io avevo fatto installare un sistema di registrazione di tutte le chiamate aziendali. Tutto era tracciabile. Ma nessuno è venuto a chiederlo. Anzi, quando denunciavamo furti documentati, non è mai partito nulla. O almeno, se è partito, non ha portato al recupero di nessun bene estorto. Mentre intanto l'azienda spariva sotto gli occhi di tutti».
Un lutto professionale che si fa personale. Perché insieme all’assoluzione, Azzarà chiede ora che venga revocata anche l’interdittiva antimafia che ha colpito sia la Ased sia lui come persona fisica. Una misura che ha avuto effetti devastanti: la perdita di attività commerciali con utili consistenti (bar, tabacchi, edicola, slot machine, servizi Sisal e Lottomatica), la chiusura di linee di credito, la rottura di relazioni bancarie. «Le banche, che dovrebbero tutelare il lavoro, hanno chiuso ogni fido. E io sono rimasto senza niente».
Il suo pensiero, oggi, va anche ai dipendenti. «C'è chi si è trasferito a Vibo, chi ancora non lavora. C'è un ragazzo che mi ha scritto: "Saro, se hai bisogno, vengo a pulire, anche gratis". Ma il lavoro deve essere retribuito. Questo era lo spirito della mia azienda: solidarietà, non sfruttamento». E poi l’avvocatessa Natascia Sarra, artefice della lunga, meticolosa, coraggiosa difesa culminata in una arringa definita da Azzarà «un momento di altissima dignità giuridica e umana». A lei, dice, va la sua stima più profonda: «Il suo lavoro è stato un esempio concreto di come la competenza, l'etica e l'umanità possano ancora fare la differenza».
Saro Azzarà compirà 80 anni tra pochi mesi. E con questa sentenza, dice, vuole solo tornare a vivere. «Per quel poco che mi resta di vivere, voglio riprendermi ciò che resta della mia dignità, della mia vita, della mia verità».