Caporalato in Calabria, braccianti sospesi tra paura dei contagi e la denuncia

VIDEO Il progetto Incipit della Regione Calabria individua le vittime di tratta e le assiste aiutandole a crearsi una seconda vita. Marina Galati: «Chi è isolato più difficilmente si espone e diventa consapevole dei suoi diritti»

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di Tiziana Bagnato
26 maggio 2020
16:19

Sfruttati nei campi in tempo di pandemia, spesso senza dispositivi di sicurezza, senza distanziamento, senza precauzioni. Spaventai ma costretti a lavorare per pochi euro al giorno potere mangiare. In Calabria il caporalato in tempo di coronavirus non si ferma, dalle campagne della Sibaritide, passando per Rosarno e per la zona di Campora e Nocera le schiene piegate sotto al sole raccontano di un fenomeno che non accenna a diminuire.

 


A raccontarlo chi da anni si spende per assistere i lavoratori, convincerli a denunciare, cercando poi di dar loro una nuova vita. Il Progetto Incipit della Regione Calabria, di cui fa parte, tra gli altri la Progetto Sud di don Giacomo Panizza, lavora con le vittime di tratta. Si tratta di un percorso delicato e difficile che li espone a rischi e ritorsioni, ma che nel tempo ha portato a grandi passi in avanti nell’emersione.

 

Quaranta i braccianti che assistiti hanno denunciato durante la pandemia nella Sibaritide, aiutati poi ad iniziare una nuova vita. Come ci spiega Marina Galati, referente del progetto Incipit, dopo la denuncia si trovano disorientati e i lavoratori vanno allora aiutati a trovare una nuova fonte di sostentamento e un nuovo posto in cui andare a vivere. Non di rado sono infatti gli stessi caporali a dare loro un tetto sulla testa, magari in stanzoni in cui vivere in dieci condividendo tutto, impossibilitati a fare prevenzione e a tutelarsi anche dal contagio del Covid.

 

Nei campi i braccianti non mancano, almeno in Calabria. È al nord che l’impossibilità di un continuo innesto di immigrati dal paesi dell’Est per il blocco delle frontiere ha provocato un vuoto e difficoltà nel riuscire a raccogliere frutta e ortaggi. In Calabria a piegare la schiena sono soprattutto africani e indiani che difficilmente rientrano nel loro Paese a fine stagione. In questi mesi non sono stati all’oscuro della pandemia, hanno capito e condiviso tra loro preoccupazioni e timori, specie quelli che hanno vissuto l’ebola, chiedendo misure di sicurezza che spesso sono stati loro negati.

 

Nelle baraccopoli e nelle tendopoli riescono a fare squadra e a trovare coraggio, mentre chi è isolato è ancora più drammaticamente vittima dei caporali. Ed è forse per questo motivo, afferma Marina Galati, che nella Sibaritide hanno denunciato in ben quaranta durante questi mesi, mentre nelle campagne di Nocera e di Campora non c’è stato un sussulto.

Giornalista
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