La storia “d’amore” fra Caronte e clan: dal pentito gli intrecci tra affari, politica e mafia

Pino Liuzzo svela i presunti rapporti fra la holding del mare e la ‘ndrangheta reggina. E il vero motivo per cui «Matacena era intoccabile»

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di Alessia Candito
19 gennaio 2020
11:10

Brutto, bruttissimo periodo per la Caronte&Tourist. Se il 2019 si era concluso male, con l’arresto sulla scaletta dell’aereo del presidente del cda, Nino Repaci, finito ai domiciliari insieme all’amministratore delegato, Calogero Famiani, per mazzette e favori con cui avrebbero addomesticato il Comune di Villa San Giovanni e tacitato i controlli, non meglio è iniziato il 2020, esordito con il sequestro dei tre traghetti disposto dalla procura di Messina per truffa per il conseguimento di pubbliche erogazioni, falsità ideologica e frode nelle pubbliche forniture.

Ma i problemi per la holding del mare, che si occupa pressoché in regime di monopolio dell’attraversamento dello Stretto di Messina, potrebbero essere solo all’inizio. A inguaiarla ulteriormente potrebbe essere il boss-imprenditore pentito, Pino Liuzzo. Un uomo del sistema e che conosce da vicino la Caronte e il suo mondo, tanto da poter fare luce sulla manovra societaria che ha permesso alla holding della famiglia Matacena di mettersi al riparo, quando le inchieste hanno iniziato a toccare il parlamentare di famiglia, Amedeo, attualmente latitante a Dubai.

«Una manovra per mettersi al riparo»

«La Caronte era la società, la gallina dalle uova d’oro. Quindi, in poche parole, Matacena per come la posso vedere io, essendo che avevano il Cavaliere e la mamma, avevano le loro amicizie, nel momento in cui sono usciti i collaboratori di giustizia (..) i Matacena si sono resi conto che venivano toccati. Quindi si sono buttati le basi all’estero nel momento non del sospetto».

La loro dunque è stata solo «una tattica» per mettere in salvo un patrimonio poi nascosto a «Saint Moritz, Montecarlo…inc.. Dubai» esattamente dove l’ex parlamentare, oggi latitante, si lagna ad ogni microfono disponibile di un’esistenza magra e derelitta, quasi da studente expat.


Tutto cambi perché nulla cambi

Ma nella pratica, spiega Liuzzo, nulla è cambiato per l’azienda di famiglia. In primo luogo nei rapporti con i clan che «sono continuati, nessuno si è lamentato anche se c’è stato quel cambiamento... chi ora ha preso il posto di Repaci (nella seconda fase presidente cda) voglio dire ecco... lo stesso cercano di avere buoni i rapporti, poi voglio dire hanno messo delle macchinette al posto del bar, il fatto della Caronte, ed anche sulle Caronte voglio dire hanno chiuso il bar e hanno messo le macchinette, là c’è sempre il discorso, poi chi le fornisce queste macchinette?».

Dettagli non di poco conto che potrebbero portare più di un grattacapo alla famiglia con cui – quanto meno ufficialmente – Amedeo Matacena ha ferocemente litigato. Ma il filo che Liuzzo oggi tesse si intreccia con una trama di dichiarazioni di pentiti, rivelazioni e risultanze investigative che insieme raccontano un rapporto storico e strutturato fra la famiglia e i clan, nato nei contesti più elitari e occulti, dove ‘ndrangheta e grande imprenditoria dietro i grembiuli si mischiano, ma visibile nelle immediate ricadute sul territorio di Villa San Giovanni e non solo.

Una storia dalle radici antiche

Il primo a parlarne era stato Filippo Barreca, che senza incertezza alcuna aveva collocato il cavaliere Matacena, capostipite della dinastia di armatori, nella superloggia fondata a Reggio Calabria nel ’78 dal terrorista nero Franco Freda, latitante a Reggio Calabria sotto l’ala protettrice del clan De Stefano.

«Una struttura di fatto costituita da personaggi eccellenti con la salda intesa di una mutua assistenza esisteva già da prima, e Freda – racconta Barreca - si limitò a formalizzarla nel contesto di quel più ampio progetto nazionale che alla realtà reggina improvvisamente attribuì un ruolo di ben più ampio significato e spessore. Non bisogna dimenticare che già da tempo esisteva la "Santa"», la prima struttura riservata nella storia dei clan.

La superloggia reggina

A farne parte – spiega Barreca -  politici e notabili come «Lodovico Ligato, il marchese Genoese Zerbi, Il senatore Vincelli, il ministro Misasi, l’onorevole Nicolò, l’onorevole Pietro Battaglia, Giovanni Palamara, il fratello Marco», imprenditori come «Mauro, Amedeo Matacena Senior, l’ingegnere Domenico Cozzupoli», professionisti come «l'ingegnere Tripodi di Lazzaro, il professore Panuccio ed il fratello Alberto, il notaio Marrapodi», uomini delle forze dell’ordine e ‘ndranghetisti di rango, dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, «che dopo la partenza di Freda vennero incaricati di gestire la loggia» ai massimi boss dell’epoca, fra cui « Paolo De Stefano, Rocco Musolino, Turi Scriva, ‘Ntoni Nirta, Peppe Piromalli, Nino Mammoliti, Peppe Cataldo, Natale Iamonte, Santo Araniti, don Stilo, Mario Mesiani Mazzacuva».

C’era anche Stefano Bontade, a testimonianza degli ottimi e strutturali rapporti con i clan siciliani, «perché il progetto massonico non avrebbe avuto modo di svilupparsi in pieno in assenza della 'fratellanza" con i vertici della mafia siciliana, ciò conformemente alle regole della massoneria, che tende ad accorpare in sé tutti i centri di potere, di qualunque matrice». Un elenco di nomi pressoché identico lo snocciola il pentito Stefano Serpa, ma Barreca – che di Freda è stato custode e confidenteb- riesce ad essere preciso anche sugli obiettivi della loggia.

Obiettivo: eversione

«Posso affermare con convinzione che a seguito di questo progetto, in Calabria la 'ndrangheta e la massoneria (coperta — ndr) divennero una "cosa sola"». E questa “cosa sola” aveva un programma preciso, di natura dichiaratamente eversiva, che puntava – fra le altre – a «ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche - compresi gli appalti - della Provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni a cui capo venivano collocati persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura; l'eliminazione, anche fisica, di persone "scomode" e non soltanto in ambito locale. In sostanza si era creato un "gruppo di potere" che gestiva tutto l'andamento della vita pubblica ed economica in sintonia con altri gruppi costituitisi in altre città italiane».

Gli imprenditori della Fenice

Un piano rispettato pedissequamente, raccontano le inchieste degli ultimi anni. Così come altri pentiti sono tornati a confermare la presenza di Matacena in circuiti massonici occulti, in cui i grembiuli servono anche per nascondere la presenza dei clan. A partire da Cosimo Virgiglio, massone di alto rango in quel contesto incaricato dal “cavaliere” don Elio Matacena «che faceva parte di un circuito superiore» di capire l’origine delle fortune del nipote Amedeo.

«Molè mi disse che le navi di Matacena erano arrivate a Gioia Tauro grazie a suo cugino Pino Piromalli Facciazza» al quale era arrivato a bussare grazie agli ambienti massonici occulti di Reggio. Lì dove ‘ndrangheta e imprenditoria parlavano da pari. «Montesano chiamò i De Stefano, che a loro volta si misero in contatto con i Piromalli, che misero a disposizione Gangeri perché le navi attraccassero alla banchina del porto di Levante per i lavori di ammodernamento, che non è cosa da poco. A quel punto chiamai Malara e gli dissi “Avevate ragione voi”. Quando Amedeo Matacena si mise in affari, don Elio era certo che si fosse messo in rapporti con la criminalità organizzata».

Il manuale Cencelli delle assunzioni

Sulle ricadute pratiche di quei rapporti invece è oggi Pino Liuzzo a fare, quanto meno in parte, luce. A partire dalla Caronte, servita a seminare tra i ranghi dell’esercito dei clan gli spiccioli delle enormi fortune che Matacena, deputato e imprenditore dei clan, ha distribuito fra i grandi casati della ‘ndrangheta reggina. In primo luogo con le assunzioni, dice Liuzzo.

«C’era dei Buda… che avevano le loro persone inserite (…) Le assunzioni erano tutte, la maggior parte al 50/60 % regolari. Le seguiva Repaci, le seguiva chi le doveva seguire. Un 35% venivano scritte perché dovevano essere assunte 2 degli Alvaro, 2 degli Imerti, 2 dei De Stefano, 2 di qua, due di là. Poi è capace che i Rosmini, o tramite i Campolo ne assumevano dieci, ne assumevano dodici. Quello era un altro discorso». Perché ai Campolo prima e ai Passalacqua poi i Matacena hanno sempre concesso «la gestione di tutti i bar della Caronte, era un business».

Biglietti per tutti

Poi c’erano i regali. Buste di biglietti omaggio per il traghettamento. Su indicazione di Campolo, titolare dei bar sulle navi e uomo dei clan, «le faceva il dottore Repaci, perché a me questo me lo diceva Peppe Aquila» spiega Liuzzo, ma poi «le passava ad Augusta De Carolis, la zia di Amedeo, perché in poche parole voglio dire lui non voleva mai il contatto con nessuno». E nonostante il futuro parlamentare fosse «un pochino tirato» dice il pentito, tanto da pretendere persino di dividere una cena alla romana o volatilizzarsi al momento di pagare le consumazioni, durante la campagna elettorale anche lui diventava generoso e si dava alla gran distribuzione di “buste”.

«Non è che li andava e li prendeva lui, per esempio, lui, per esempio gli chiedeva la cortesia ad amici suoi che avevano imprese, che avevano ditte e o società per esempio, che aveva il fratello o persone che avevano fuori e lui poi per esempio glieli mandava nelle buste chiuse e gli mandava, per esempio, quando faceva la campagna elettorale… biglietti della Caronte, per esempio le tessere, per esempio».

L’amico di tutti

E non si trattava certo di estorsioni, chiarisce subito Liuzzo. «Nel periodo delle assunzioni, lui andava a pranzo e si mangiava le frittole. Quindi non penso, non voglio giudicare male... ma se uno viene a casa mia o andiamo sempre al ristorante e Matacena è sempre con me, io che faccio, gli faccio l’estorsione?» chiede il pentito. E poi è cristallino. «Lui prendeva tutta la zona tirrenica, Jonica e Reggio Calabria. Amedeo Matacena camminava senza scorta o altro. Perché quando Pasquale Condello assieme a Diego Rosmini, e tramite Gambazza hanno mandato a dire a quelli di Platì che Matacena è intoccabile. Quindi se toccavano Matacena, come qualcuno andava a Reggio Calabria, non tornava per la Jonica».

Alla base – spiega Liuzzo – c’erano «uno scambio elettorale» e appalti e lavori. Oltre a quel rapporto massonico-mafioso, emerge dalle inchieste, che secondo i pentiti ha permesso a Matacena di partecipare al summit di ‘ndrangheta di Polsi del settembre del ’91, durante il quale si stabilì di appoggiare in blocco Forza Italia.

Politi che tutto sa «e povero quando apre bocca»

 Quanto di questi rapporti abbia pesato nella storia di Caronte&Tourist, nata all’indomani dell’uscita di Amedeo Matacena dal gruppo, non è dato sapere. Ma secondo Liuzzo c’è un uomo che conosce tutti i dettagli. È Martino Politi, uomo di fiducia della famiglia, vicinissimo alla madre di Amedeo, Augusta De Carolis, e storico braccio destro del figlio.

«Matacena – dice il boss pentito - tutto quello che fa, lo fa d’accordo assieme alla madre e alla zia, e quello che sempre era presente, era Martino Politi». Presenziava agli incontri con i politici all’epoca emergenti come «Nicolò, Scopelliti, Sarra» e faceva da tramite con i numerosi rampolli di ‘ndrangheta che spesso e volentieri si presentavano in segreteria da Matacena o ci andavano a giocare a calcetto. «E per questo» si lascia scappare Liuzzo «povero quando apre bocca».

Giornalista
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