Coronavirus, il mistero della cura calabrese scomparsa: arrivati prima di tutti, poi il silenzio

INCHIESTA | Dalla collaborazione tra l'ospedale dell'Annunziata di Cosenza e l'Università di Catanzaro era partita la prima sperimentazione in Italia di un farmaco che inibirebbe gli effetti devastanti del Covid. Mesi dopo i risultati restano in un cassetto, sottratti alla ricerca (ASCOLTA L'AUDIO)

di Camillo Giuliani
13 dicembre 2020
13:07

Gli ultimi saranno i primi, a meno che non decidano di continuare ad essere ultimi. La sanità calabrese, storico fanalino di coda nelle classifiche nazionali, il 27 marzo era riuscita a ritagliarsi un ruolo di rilievo assoluto nel panorama medico internazionale quando, grazie alla collaborazione tra l'Azienda ospedaliera di Cosenza e l'università di Catanzaro, all'ospedale dell'Annunziata era partita la sperimentazione di un farmaco, normalmente utilizzato per terapie immuno–ematologiche e per questo noto quasi solo agli esperti del settore, nelle cure contro il Covid–19. Nella prima nazione occidentale a dover fare i conti col nuovo coronavirus, nessuno era mai stato autorizzato ufficialmente a provarci fino a quel momento.


L'idea di percorrere questa strada veniva a due ematologi del nosocomio bruzio, Francesco Mendicino e Cirino Botta, e a un professore della Magna Graecia, Marco Rossi. E sia l'Ao – il commissario era già Giuseppina Panizzoli, il direttore sanitario invece l'attuale numero uno dell'Asp, Simonetta Cinzia Bettelini – che la Regione, supportate dal via libera ai test arrivato dall'Istituto Spallanzani, la sposarono con tanto di comunicato ufficiale in cui si sottolineava il primato della Calabria. Parole orgogliose che infondevano speranza per il futuro, rafforzate a pochi giorni di distanza dagli annunci dei primi miglioramenti di uno dei pazienti che avevano accettato di sottoporsi a quella cura inedita. Tutti, nelle successive settimane, tornarono sani a casa loro.


Un'idea per svuotare le terapie intensive

La molecola in questione si chiama Ruxolitinib e agisce sul sistema immunitario quando viene posto sotto stress, scongiurando l'insorgere di una letale tempesta di citochine all'interno dell'organismo dei pazienti. Semplificando il più possibile il concetto: impedisce che le infiammazioni agli organi interni siano tali da portarli al collasso. Può succedere, per esempio, dopo un trapianto di midollo, uno dei contesti tipici in cui si ricorre al Ruxolitinib per contrastare l'eventuale rigetto. Ed è quello che accade spesso anche a chi contrae il Covid-19, con l'ormai famigerata polmonite interstiziale che ha costretto migliaia di italiani a varcare la soglia dei reparti di terapia intensiva sparsi lungo la Penisola o, peggio, li ha uccisi.


Il Ruxolitinib non serve a negativizzare un positivo, ma sembra aiutare i polmoni e gli altri organi a reggere l'urto del virus. La respirazione di chi lo ha assunto è migliorata fino a tornare autonoma e quando questo succede il paziente non deve più occupare uno dei letti destinati ai malati più gravi. Quei pochi posti, cioè, che la Calabria avrebbe dovuto aumentare di numero ma sono rimasti gli stessi, o quasi, del passato per il mancato adeguamento della rete sanitaria alle esigenze dettate dalla pandemia.

Gli studi nel resto del mondo

Eppure i riflettori puntati sulla pionieristica sperimentazione dell'Annunziata si sono spenti. Gli ultimi, assaporata l'aria del primato, sono spariti dai piani alti della classifica, alle tradizioni non si rinuncia. Non un dato pubblicato e niente più comunicati stampa a riguardo, mentre nel resto del mondo, in ospedali e atenei di assoluto prestigio, si moltiplicavano gli articoli su quel farmaco. In Cina, Regno Unito, Stati Uniti, Russia, Francia, Spagna, Germania, Svizzera, Danimarca, Brasile, Messico,Turchia e in diverse regioni italiane gli esperimenti col Ruxolitinib andavano avanti. I risultati? Da prendere con le pinze, come per qualsiasi test avvenuto con tempistiche ridotte rispetto a quelli tradizionali a causa dell'emergenza pandemia, ma molto incoraggianti in attesa di studi più approfonditi: poche settimane fa l'importante rivista scientifica Leukemia ne ha pubblicato uno realizzato a Bergamo su 75 pazienti in cui si evidenzia una significativa riduzione della mortalità (– 70%), senza rilevanti effetti collaterali, tra quelli curati col Ruxolitinib.

A volte ritornano...

Perché allora l'Ao di Cosenza non ha mai condiviso gli esiti del suo esperimento condotto tra fine marzo e metà aprile? Buoni (come dimostrerebbero le dimissioni dei pazienti sottoposti al trattamento) o cattivi che fossero, i dati ottenuti, seppur limitati a un campione ristretto di persone curate, potevano tornare comunque utili al mondo della ricerca, specie in un momento come la prima ondata in cui tutti i medici del pianeta navigavano a vista. Il mistero sull'inatteso silenzio si è infittito negli ultimi giorni, quando un'altra importante rivista scientifica, Frontiers, ha accettato di ospitare un nuovo articolo.


Si tratta di un case report che illustra l'evoluzione positiva del quadro clinico di un paziente Covid fino alle sue dimissioni dal policlinico universitario di Germaneto, dov'era ricoverato nel reparto diretto dal professor Federico Longhini. Non un paziente qualsiasi, però, per più di una ragione: è il primo al mondo a cui il Ruxolitinib è stato somministrato quando era già intubato e, soprattutto, è uno dei partecipanti alla sperimentazione avviata all'Annunziata ma trasferito a terapia iniziata nel catanzarese. Il “trasloco” appena citato ha fatto sì che l'ultima scelta sulla pubblicazione dei dati raccolti non spettasse più all'Ao bruzia, bensì all'ateneo del capoluogo regionale.


Ma l'articolo su Frontiers ha altri legami con l'ospedale cosentino oltre al luogo di provenienza del paziente: a firmarlo, tra gli altri, sono il primario di Rianimazione a Cosenza, Pino Pasqua, l'attuale Covid manager dell'Annunziata, Francesco Cesario, e soprattutto Mendicino e Botta, indicati esplicitamente come gli autori principali... (leggi la seconda parte dell'inchiesta)

giuliani@lactv.it

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