Detenuto calabrese morto per Covid-19, il figlio: «Nessuno ci avvisò del contagio»

Tanti gli aspetti della vicenda da chiarire per i parenti dell’uomo di origini crotonesi che in una lettera mai arrivata avrebbe raccontato le anomalie nella gestione dell’emergenza all’interno del carcere: «Perchè il medico del penitenziario non ha voluto visitarlo?»

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di T. B.
14 aprile 2020
12:57

«Nessuno ci ha informati del fatto che nostro padre fosse positivo al coronavirus, eppure abbiamo chiesto sue notizie di continuo. Neanche il Gip ed il Gup di Catanzaro ne erano a conoscenza, siamo riusciti a parlare con uno dei sanitari che lo aveva in cura dopo settimane». Vogliono vederci chiaro i familiari di Antonio Ribecco detenuto nel carcere di Voghera e deceduto nell’ospedale di Milano dopo essere risultato positivo al Covid-19.

Il decesso di Antonio Ribecco

Il figlio dell’uomo si è rivolto all’associazione ‘Yairaiha’ di Cosenza raccontando una vicenda piena di ombre e sulla quale ora chiedono che venga fatta chiarezza. Il 59enne calabrese, ma residente da tempo a Perugia, era arrivato nel carcere di Voghera il 12 dicembre scorso dopo essere stato indagato insieme ad altre 96 persone nell’inchiesta ‘Infectio’ della Dda di Catanzaro.


 

A febbraio il primo caso positivo all’interno della casa circondariale, quello del cappellano, poi la protesta dei detenuti per avere adeguate misure di sicurezza, mascherine, guanti e tamponi. Poi il trasporto in Pronto soccorso di Ribecco il 17 marzo dopo essere risultato positivo al tampone per Covid, spiega l’Adn Krons, a cui è seguito il trasferimento al San Carlo di Milano fino al decesso il 9 aprile scorso.

I funerali nel Crotonese

Le esequie si sono tenute a San Leonardo di Cutro, nel crotonese. Ma i suoi familiari hanno molto da dire e tanto da chiedere. A partire da una lettera che l’uomo avrebbe annunciato di avere loro spedito e in cui avrebbe raccontato come veniva gestita l’emergenza in carcere, una missiva a loro mai arrivata. Ma soprattutto si chiedono perché nessuno abbia mai loro detto che il padre aveva contratto il Covid. «Neanche il Gip ed il Gup di Catanzaro ne erano a conoscenza, siamo riusciti a parlare con uno dei sanitari che lo aveva in cura dopo settimane, quando era ormai in Terapia intensiva. Ci hanno detto che era molto grave, ma essendo sano la possibilità di guarigione era reale, anche se compromessa dal fatto che il virus era da diverso tempo che faceva il suo corso».

«Mio padre non era malato»

«Preciso – spiega il figlio - che mio padre non aveva nessuna patologia, fino a dicembre correva ed andava più forte di me che ho 28 anni. I primi di marzo ci ha comunicato che aveva tosse e febbre alta da giorni, che il medico del carcere di Voghera non aveva voluto visitarlo e che per questo motivo la guardia penitenziaria gli aveva fatto una lettera di richiamo al dottore. Mi ha poi spiegato di averci inviato un riassunto di tutto quello che stava succedendo. Questa lettera non è mai arrivata».

La posizione della famiglia

I legali della famiglia di Antonio Ribecco, Giuseppe Alfi e Gaetano Figoli del foro di Perugia stanno valutando l’ipotesi di sporgere denuncia per fare chiarezza sulla vicenda. «Avere detenuti infetti in carcere è pericolosissimo – afferma Alfi - ho per questo lanciato un appello ancora rimasto inascoltato. Lo Stato, è evidente, non si è attivato per garantire il diritto alla salute del nostro assistito. Vorremmo capire perché il medico si è rifiutato di visitarlo, perché non sia stata avvisata la famiglia, perché non è ancora pervenuta una relazione di cosa sia successo nel penitenziario di Voghera né l’ultima lettera inviata dal detenuto. Nella morte di Antonio Ribecco, che era ancora in attesa di giudizio, esiste una responsabilità politica ed una tecnica che riguardano la gestione della pandemia nelle carceri».

 

«Il Consiglio d’Europa – ricorda il legale – aveva già sollecitato l’Italia ad aumentare le scarcerazioni concedendo gli arresti domiciliari per limitare il sovraffollamento al fine di evitare che i penitenziari diventassero enormi focolai di Covid-19. Le Camere penali italiane hanno a loro volta richiesto di seguire tali indicazioni. Il Ministero della Giustizia le ha ignorate e a sua volta anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E oggi prevista la detenzione domiciliare solo per chi ha già una pena definitiva inferiore a 18 mesi con il vincolo di usare i braccialetti elettronici, dispositivi di cui l’Italia dispone in numero irrisorio. Il tutto è quindi ora demandato alla discrezionalità del singolo magistrato. Si sta ponendo a serio rischio la vita di molte persone».

 

Giornalista
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