“La mafia del pane” lo voleva morto, adesso si sente tradito dallo Stato

Il racconto di una vittima di 'ndrangheta che con la sua famiglia si era ribellato al racket sulle preserre vibonesi. Oggi la Questura gli nega il porto d'armi VIDEO 

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di Agostino Pantano
6 marzo 2020
19:20

Franco Franzè, parlando sul luogo dell’agguato subito nel 1995, descrive per la prima volta una dinamica agghiacciante: «Mi spararono con un fucile caricato a pallettoni e tentarono di finirmi con una cartuccia usata per la caccia al cinghiale, mi salvai perché mi finsi morto».

A lui la campagna delle preserre vibonesi rievoca una morte scampata per miracolo, mentre a sua madre - Anna Barba, una commerciante di Arena, oggi pensionata - il punto più drammatico di una lunga escalation. «Avevo denunciato la mafia del pane – spiega la donna – mi tagliarono un uliveto, mi bruciarono la porta del negozio, mi picchiarono solo perché avevo osato non pagare il pizzo e rifornirmi da grossisti senza chiedere il permesso ai mafiosi».


Condannati in quattro

Furono condannati i quattro che ordirono l’agguato, fra loro anche il boss Antonio Gallace, ma oggi mamma e figlio si sentono traditi dallo Stato per via di un documento della questura di Vibo Valentia.

«Non hanno rinnovato il porto d’armi a mio figlio – denuncia la signora – considerandolo erroneamente un testimone di giustizia, mentre è stato riconosciuto come vittima di mafia, e richiamando la parentela con un pregiudicato: tutte le sentenze dei processi nati dalle mie denunce hannoconfermato la credibilità della mia famiglia, lo Stato ora ci gira le spalle ma è vergognoso».  

Anna Barba ha chiesto al prefetto Francesco Zito un incontro al quale chiede che ci sia anche il procuratore Camillo Falvo: «Devono spiegarmi perché da qualche tempo sembra che in Questura ci sia qualcuno che ce l’ha con la mia famiglia».   

Giornalista
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