Il pm Di Palma al boss Molè: «Lei non è nessuno, non conta più niente»

Piccato botta e risposta, ieri, al processo “Mediterraneo”. Il capo della cosca della Piana accusa i magistrati: «Ce l’avete con noi, vi fate pubblicità». Il pm replica: «Lei è un mafioso provato dal carcere»
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di Consolato Minniti
15 febbraio 2018
17:19
Il pm Roberto di Palma
Il pm Roberto di Palma

«Lei, signor Molè, non conta più niente». Non usa giri di parole il sostituto procuratore Roberto Di Palma nel corso della sua requisitoria, ieri, nel processo “Mediterraneo”. Perché il pm – di recente tornato alla Dda – non si limita soltanto a chiedere la condanna degli imputati, ma replica anche a quelle che sono le parole del boss Mommo Molè che, poco prima, chiede la parola per fare delle dichiarazioni spontanee.

L'attacco del boss

Le frasi del capo cosca sono abbastanza chiare: «Vi piace vincere facile. Sempre con noi ce l’avete, vi volete fare pubblicità sulle nostra spalle», dice con veemenza al procuratore, dal penitenziario dove si trova rinchiuso. E di motivi per essere nervoso Molè ne ha parecchi, visto che la sua famiglia è stata totalmente annientata dal conflitto con i Piromalli, dopo quei famigerati “cent’anni di storia” che hanno visto un’alleanza ferrea cadere sotto i colpi degli interessi contrapposti. Una guerra vera e propria che ha decimato, anche e soprattutto grazie ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria, la resistenza del clan Molè.


 

Parole un po’ troppo sprovvedute quelle del boss, che continua dicendo di essere impossibilitato a parlare durante le visite dei parenti: «Io non sono un padre che parla con i figli, ma un mafioso che comunica ordini agli affiliati».

La replica del pm

Chi conosce Di Palma sa anche come i suoi modi siano assolutamente garbati ed umani. Ma di fronte a simili accuse, la replica – arrivata proprio durante la requisitoria – trancia qualsiasi velleità del boss: «Noi – spiega Di Palma – la trattiamo per quello che è, signor Molè. Un mafioso. E trattiamo i suoi figli per quello che sono, mafiosi. E questo non lo diciamo noi ma lo affermano diverse sentenze che vi hanno visti condannati». E poi aggiunge: «Non è assolutamente vero, signor Molè, che lei in carcere parla in maniera chiara e libera perché sa che ci sono le videocamere. Forse lei lo ha dimenticato, ma io no – e lo sa anche il tribunale – ma nel processo “Cent’anni di storia” è emerso che lei e la sua famiglia usavate lo stesso libro per mandarvi messaggi in codice». L’aula si fa sempre più silenziosa, quasi attonita davanti alla reazione decisa del sostituto procuratore che incalza: «Non ce l’abbiamo con lei, signor Molè. Noi facciamo indagini e il nostro scopo non è certo farci pubblicità o acquisire notorietà. Se fosse vero, considerato che l’arresto ogni due mesi,  dovrei essere procuratore nazionale e invece sono un semplice pubblico ministero. Lei, invece, signor Molè, non è nessuno. Come vede, qui non ci sono giornalisti, non ci sono telecamere perché lei, signor Molè, non conta più niente. Lei, signor Molè, non è nessuno. È solo provato e toccato dal carcere ma non conta più nulla e questo lo sa anche lei».

Giornalista
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