Il collaboratore Francesco Fortuna parla degli affari del clan del Vibonese a Milano: «Sapevano che andavo in Lombardia a fare delle truffe». Gli investimenti in Piemonte e il progetto (fallito) delle ville sul mare
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Il collaboratore di giustizia Francesco Fortuna ha affermato, nel corso dell’ultima udienza d’appello del processo Rinascita Scott, che prima del suo arresto era spesso a Milano. A novembre 2014 si è «liberato della sorveglianza» e a gennaio 2015 è andato a Milano dove si recava più giorni a settimana perché «c’era Gaetano Lo Schiavo, mio cugino (cugino della moglie di Fortuna, ndr), che aveva il suocero (il compagno della madre della fidanzata Lo Schiavo, ndr), Giovanni Barone, che aveva una società a Milano e noi eravamo partiti per lavorare in questa società». Barone, dice Fortuna, «entrava in società con delle aziende e poi le spolpava, le svuotava, ecco».
Aziende da spolpare
Entrando nello specifico, Fortuna racconta che nel periodo in cui è partito per Milano, Barone aveva preso una società, «la “Isea general contractor”, dove si era insediato col 50% delle quote. Secondo il suo modo di fare doveva svuotare questa azienda. Io e Lo Schiavo avevamo il compito di trovare dei progetti da portare a questa azienda per dare l’idea che si era in procinto di cominciare diversi lavori per riprendersi. Ma quella era solo un’apparenza perché nel frattempo la società sarebbe stata svuotata da Barone. Il mio intento era quello di guadagnarci. Quando siamo arrivati a Milano, Barone ci ha spiegato che dovevamo trovare dei progetti che dovevano essere presentati agli altri soci come lavori da prendere da parte dell’Isea per risanare i problemi economici. Nel frattempo Barone avrebbe preso da quell’azienda tutto quello che poteva prendere».
Le fidejussioni per Alvaro
Fortuna racconta che i Bonavota sapevano che lui a Milano andava a fare delle truffe con Barone. In una occasione, aggiunge il collaboratore, Pasquale Bonavota gli chiese di passare da Roma, al ritorno da Milano, perché voleva trovare delle fidejussioni che servivano a Vincenzo Alvaro, «appartenente alla criminalità organizzata di Sinopoli». «Io chiesi a Barone che però mi disse che queste fidejussioni non si potevano fare».
Un investimento vero
Nel frattempo Fortuna aveva trovato dei cantieri a Genova dove «si poteva costruire veramente. Presi questi progetti, li visionai e ne parlai con Domenico, Pasquale e Nicola Bonavota per chiedergli di investire». Non solo. Fortuna ricorda di essersi recato a Genova da Davide Garcea (figlio di Onofrio Garcea, elemento di vertice del locale di Genova con forti legami con i Bonavota) «per chiedergli se conosceva qualcuno che mi poteva dare dei progetti per la società Isea. E Garcea mi presentò dei soggetti che avevano questi progetti». Fortuna ricorda che i progetti gli piacquero, «li vidi realizzabili nella realtà e pensai che si potesse sfruttare l’occasione per realizzarli veramente». Dunque non solo progetti fittizi per spolpare l’Isea ma Fortuna ci vedeva un’eccezione per creare qualcosa di concreto, delle costruzioni sul mare.
Gli incontri con Garcea
Rispondendo alle domande del pubblico ministero Antonio De Bernardo, Fortuna spiega che Davide Garcea per lui, in quel momento, rappresentava «la ‘ndrangheta a Genova. Non so se si è formalmente affiliato però con Davide avrei parlato di tutto, di omicidi, qualsiasi cosa».
I rapporti tra Mandaradoni e i Bonavota
Nel credere di realizzare i progetti, Fortuna pensa di rivolgersi a un imprenditore di Torino sapendo che «i Bonavota lo sostenevano finanziariamente».
Secondo la testimonianza del collaboratore Francesco Fortuna la cosca Bonavota non disdegnava di investire il proprio denaro nel Nord Italia. Tra le altre cose avrebbe finanziato un imprenditore originario di Sant’Onofrio, Franco Mandaradoni, che stava in Piemonte: «quando cominciò a lavorare autonomamente – dice Fortuna – i Bonavota investivano con lui nei lavori che prendeva, in particolare Pasquale Bonavota e Nicola Bonavota. Poi nei primi anni 2000, anche io e Domenico Bonavota abbiamo investito 50mila euro. Avvenne dopo la prima truffa che abbiamo fatto, gli abbiamo dato 50mila euro».
Secondo Francesco Fortuna i rapporti tra Mandaradoni e i Bonavota risalgono a fine anni ’90. «Invece di mangiarveli i soldi investiteli dandoli a lui», è il consiglio che Fortuna avrebbe ricevuto dai Bonavota. I soldi che avevano investito Fortuna e Domenico Bonavota erano provento di truffa mentre il denaro che investivano gli altri proveniva dagli affari con i video poker di Pasquale Bonavota e «Nicola Bonavota aveva il bar, non penso fossero provento di estorsione, non so», ammette Fortuna. Un’attività che, invece, nacque con i soldi delle estorsioni e di altre attività illecite, racconta il collaboratore, fu il Brico nell’area industriale di Maierato, dove «investimmo 170mila euro».
Dunque per realizzare i progetti a Genova, Fortuna si rivolge a Mandaradoni e ne parla anche con i Bonavota sperando in un loro investimento.
Alla fine non si troverà l’accordo con gli imprenditori proprietari dei progetti. L’unico progetto non truffaldino rintracciato da Fortuna non si farà.